Capitolo 1 – Primo piano, stanza 8, letto B.
Manca molto all’estate?
Nella camera entra un filo di luce, mentre il calore si diffonde nell’aria. Le veneziane grigie battono contro i vetri della finestra, danzando a tempo con i vapori caldi dei condizionatori ancora accesi per errore.
È davvero importante?
Le prime foglie sono germogliate sugli alberi. Il loro verde, così chiaro, così violento, risalta tra le strane forme delle nuvole. I timidi bocci dei fiori salutano questa primavera priva di prepotenza.
Le mezze stagioni non esistono più.
I corridoi sono più silenziosi del solito. Da quando è morto Gianni, il becchino, gli altri pazienti sono più tranquilli. Il suo passatempo preferito era predire la dipartita dei compagni di degenza. Quando meno se lo aspettavano, li afferrava per il collo e li spingeva giù, verso terra, accompagnando le loro ginocchia al pavimento. Era il suo tentativo disperato di far avverare il vaticinio, di dimostrare che sì, lui era davvero il becchino. Nessun medico saprebbe dire quanti ne abbia sotterrati. E, forse, è meglio così. Dopo quel caso finito male, l’avevano spostato in isolamento, e neanche a dirlo, non l’aveva presa affatto bene. Non gli era rimasto che predire la propria morte. E quella volta gli era stato più semplice non sbagliare.
Una rondine non fa primavera.
Questa calma non durerà a lungo. Ne arriverà uno nuovo. Si stenderà sul suo letto. Guarderà fuori dalla sua finestra. Non c’è niente di nostro qui dentro. Non siamo padroni neppure di noi stessi.
Dov’è il tuo nido, tesoro?
Non sono a casa. Non sono a casa. Non sono a casa.
A primavera gli uccelli imparano a volare.
L’infermiera entra nella stanza e mi accompagna a letto.
«Non dovresti alzarti da sola. Sai cosa ha detto il dottore. Te lo ricordi?»
Trovo appena la forza di annuire, mentre rimbocca il lenzuolo bianco come questa stanza. È tutto così asettico da sembrare morto.
«L’ora della medicina».
Le pillole sono l’unica cosa colorata, qui dentro. Una è dello stesso verde dei germogli sugli alberi. Così violento da far bruciare gli occhi.
Capitolo 2 – Libagioni nella sala d’attesa della stazione
L’uomo delle bolle si guardò intorno, passando in rassegna gli amici raccolti nella sala d’attesa della stazione.
«Una di noi». Le parole uscirono lente, come in una pellicola cinematografica rovinata.
«Ne sei sicuro?», chiese il comandante.
L’uomo delle bolle afferrò con la mano destra il pollice della sinistra e lo piegò all’indietro. «Il filosofo», disse osservando il clochard che aveva dei libri al posto del cuscino.
Con lentezza passò all’indice, e osservando l’unica donna della comitiva, bisbigliò: «La samaritana». Sorrise, tra sé e sé, per un istante di troppo. «Impossibile non accorgersi di lei».
Il dito medio era corto e pingue. «Il trovatello», precisò puntando il naso verso un ragazzo giovane.
«Quanti anni gli dai?», proseguì.
«Non ho tempo di giocare».
«Ne ha diciotto. Il suo viso è già come il nostro. Freddo… Solitudine… Dolore…»
Il comandante fissò quello che era poco più di un bambino. Avrebbe voluto dire o fare qualcosa, ma non era lì per quel motivo.
«E gli altri? Sono tutti?»
L’anulare dell’uomo delle bolle fu riservato a quello che era stato ribattezzato il marinaio. «Non è mancato una notte da quando è naufragato con il barcone di stranieri».
«Chi è l’ultimo?»
«Oh, è il nuovo arrivato. Non sappiamo niente di lui». Si fermò a osservare il mignolo leggermente storto. Senza alzare lo sguardo, riprese: «Non parla molto. Anzi, non parla affatto. Lo chiamiamo il politico… e a lui sta bene così».
«Ce ne sono altri? Magari che passano una volta ogni tanto…»
«La stazione di notte non è un bel posto. Siamo tutti qui, comandante. Non manca nessuno».
«Non è una di voi».
«Se è morta qui, è un po’ come se lo fosse», disse l’uomo delle bolle, allontanandosi di pochi passi verso i suoi compagni.
«Hey! Forza! Svegliatevi! Alzatevi, dai! Per stanotte il riposo è finito!»
Il trovatello provò a protestare e a rigirarsi sul suo cartone, ma fu inutile.
«Una di noi è morta».
«Amico, cosa dire?», intervenne il marinaio.
«C’è un cadavere sui binari. È morta una persona. Se era qui, al freddo, al buio, stanotte… se era qui, era una di noi».
Il filosofo lasciò il cuscino di libri e afferrò la mano dell’uomo delle bolle. «Venite qui. Prendiamoci la mano. Salutiamo una nostra compagna».
Il marinaio si portò al suo fianco. Lo seguirono anche il politico e il trovatello.
«Chiudete gli occhi e cantate con me», ruppe il silenzio la samaritana.
E intonò il canto più dolce che il comandante avesse mai sentito, mentre spargeva a terra libagioni di acqua e di vino, per accompagnare nel suo ultimo viaggio quella sorella appena trovata e già persa.
Capitolo 3 – Dietro il vetro di una finestra chiusa
Comportati come se tu fossi a casa.
Là non mi legavano i polsi. Là non mi obbligavano a seguire i loro consigli. A casa. A casa, però, mi hanno tradita.
È severamente vietato aprire le finestre.
Fa troppo caldo in questa stanza. Il riscaldamento è ancora acceso. È marzo. Sta arrivando la primavera. Il riscaldamento è ancora acceso.
Se farai la brava, Farfallina, oggi pomeriggio passeggiata nel parco.
Inghiotto le pillole. Mi abbandono al sonno. È un riposo tormentato. Le gambe si ribellano e scalciano. La schiena si incurva verso l’alto. Le mani afferrano le lenzuola. La bocca si spalanca in una smorfia che deforma il viso. Sono un mostro. Un mostro creato da loro.
Ora d’aria.
Ora, aria. Ho bisogno d’aria. Ora. Spegnete questo riscaldamento. Incendia i miei pensieri. Non riesco a concentrarmi. Non riesco a pensare. È questo quello che volete?
Silenzio, Farfallina. Riposa. È una giornata bellissima…
L’imperatrice ha sfilato nel corridoio con il suo seguito di folli. Mi ha guardata con aria di sfida. Non mi unirò al suo corteo di pazzi. Io non sono pazza. Ho solo bisogno di respirare.
Sei pazza anche tu, Farfallina.
Il parco, là fuori, è gremito di persone. Ci sono anche i normali. Oggi è giornata di visite.
Non sei stata brava, Farfallina. Resterai chiusa qui. Per sempre.
Dietro questo verde, c’è la stazione. Ho sempre amato i treni: mi regalavano il desiderio di poter andare lontano. Quando non riuscivo neppure a reggermi in piedi senza un giramento di testa, e loro sfilavano di fronte alla finestra della mia camera. È l’unica cosa che ha in comune questo posto con il mio posto.
Nessun posto è davvero tuo.
È l’ora del pasto. Mi trascinano alla poltrona. I miei piedi si puntano a terra.
Vorresti respirare, vero Farfallina? Dilata quelle narici.
Strappate questo tubo. Mi graffia il naso. Mi taglia la gola. Mi fa sanguinare lo stomaco. Togliete tutto. Non voglio niente. Non ho bisogno di niente. Tranne d’aria. Ho bisogno d’aria.
Farfallina, diventerai pesante.
Togliete tutto. Strappate questo tubo. Non ho bisogno di cibo. Ho bisogno d’aria.
Non potrai mai volare.
Capitolo 4 – Quello che l’eroina non dice
Il comandante si fece spazio tra i sassi sui binari e i rovi che costeggiavano la parte nord della stazione. Le piattaforme erano abbastanza lontane e le uniche luci che arrivavano erano quelle dei lampeggianti delle sirene a poche centinaia di metri.
La primavera era arrivata, ma lì non c’era odore di fiori. Non c’erano profumi delicati, ma solo tanfate pungenti di urina. E di sangue.
La calce viva aveva imbiancato i binari come neve, e quella notte, coperta di nuvole, priva di stelle, era davvero strana.
I rumori dei soccorsi e della polizia alle sue spalle rendevano imperfetto il silenzio di quei momenti bui in attesa del giorno, dell’alba.
Un lamento dietro i rovi lo costrinse a farsi largo tra le spine degli arbusti e gli aghi delle siringhe da insulina.
«Non spararmi! Non spararmi!», disse l’uomo disteso a terra con il laccio emostatico stretto al bicipite. Con il braccio libero si era coperto gli occhi: era diventato piccolo piccolo e il mondo, intorno a lui, era scomparso, come per uno struzzo che nasconde la testa sotto la terra.
«Non ho fatto niente! Sono diabetico, io! Diabetico…»
Il comandante restò in piedi, senza dire niente per un minuto.
«Hai sentito qualcosa di strano, stanotte?»
«Visto niente, sentito niente…»
«Senti: è morta una persona. Se sai qualcosa, parla».
Lo guardò negli occhi, per quel che la luce gli permetteva. La luna, dietro le nuvole, continuava a splendere, indifferente, ingrata. E diffondeva un bagliore anomalo, molesto. Lo guardò negli occhi, dunque. Vide che luccicavano.
«Sono un brav’uomo…», disse. La voce tremò. «Non sono sempre stato così. Ero un brav’uomo…»
E l’uomo con il laccio emostatico fece una cosa che non faceva da tempo. Mentre piangeva, prima che il comandante fosse troppo lontano, gridò: «Mi dispiace! Mi dispiace per quella persona…»
I piedi dell’ufficiale si fermarono.
«Sono un brav’uomo…»
«Fatti aiutare. Promettimi di farti aiutare».
L’uomo con il laccio emostatico aveva chiuso gli occhi. Il suo respiro era più affannoso e caricava l’aria di vapore.
«Sei un brav’uomo. Fatti aiutare».
L’altro non lo sentiva già più. Il fiato, in quel momento, era diventato lento e regolare. La siringa, appuntata nel braccio, era l’unica voce.
Capitolo 5 – La farfalla che si liberò dalla ragnatela
Non dormire, Farfallina.
Mi fa male il naso. Sembra che abbiano scavato un tunnel nella mia narice.
Senti la fame, Farfallina?
Lo stomaco brucia. Mi viene da vomitare.
Lo so che hai sonno.
È una notte così strana. Non ci sono neppure le stelle. Ho appiccicato il viso al vetro della finestra. Gli spifferi mi hanno ricordato la dolcezza di un soffio di vento.
Lo so che hai fame.
È l’ora di spegnere la luce. Le infermiere stanno facendo l’ultimo giro.
Non puoi neanche pisciare in pace.
La porta del bagno deve rimanere aperta. Hanno paura che vomiti. O che tenti di farmi male. Non c’è neppure un coltello.
C’è sempre il vetro.
Le finestre non hanno l’allarme. Il direttore, quello della stanza tre, me l’ha confermato. È qui da un anno. Conosce tutti i segreti. Conosce tutti i segreti.
Rompi il vetro. Fatti male.
Afferro il carrello della flebo e del sondino.
Rompi il vetro. Fagli male.
È pesante. Quasi quanto il mio corpo.
Rompi il vetro.
Lo scaravento con tutta la forza che ho.
Rompi il…
C’è una crepa, adesso, sul vetro.
Rompi…
Il vetro è una ragnatela. Afferro un pezzo. Poi un altro. Un altro ancora. Sento il sangue scorrere dalle mie mani.
Salta giù.
Rumori in fondo al corridoio. Lo sanno. Stanno arrivando. Strappo il vetro e la fessura, adesso, è così grande che anche il mio corpo può passarci attraverso.
Salta.
Atterro. Il mio corpo è ancora vivo.
Vattene.
C’è la stazione oltre il parco.
Scappa.
Ci sarà un treno. C’è sempre un treno.
Capitolo 6 – Siamo tutti in cerca d’amore
Il comandante arrivò in strada. La notizia aveva cominciato a girare e i giornalisti sarebbero accorsi.
«Recintate l’area. Non lasciate passare nessuno», disse ai suoi uomini. La voce si perse nell’aria.
Il bar della stazione era aperto. Un cartello luminoso riportava la scritta 24 ore. Ripensò a quanto la sua vita fosse cambiata nell’arco dell’ultima giornata. Le valigie erano già pronte. Quello era il suo ultimo caso. Il suo ultimo caso in quella città.
La notte era fredda. Il torpore leggero del giorno sembrava davvero troppo lontano.
«Un caffè, per favore».
L’uomo dietro il bancone farfugliò qualcosa e si voltò a preparare l’ordinazione.
«Sentito niente di strano?»
«Solo che è morto qualcuno».
«Pensa che sia del posto?»
«Loro», disse indicando un gruppo di donne a un tavolo del bar. «Dovrebbe chiedere a loro».
Il comandante lasciò la tazzina ancora piena sul bancone.
«Ciao tesoro…», disse la bionda.
«Per stanotte abbiamo staccato». Era la rossa ad aver parlato. Non si voltò neppure a guardarlo.
«Per te posso fare un’eccezione…»
Il comandante, con un movimento lento, tirò fuori il distintivo.
«Non sono qui per questo».
«Oh…», borbottò la mora, mentre in fretta raccoglieva le sue cose dal tavolo.
«Non cerco compagnia. Ma neanche rogne».
«Cosa vuoi, tesoro?». La bionda si era fatta seria.
«Conoscevate la persona che è morta stanotte?»
I capelli ciondolarono da una parte all’altra delle guance.
«Non lavorava con noi».
«Ma se era qua, stanotte, anche lei cercava amore», disse quella che era rimasta in silenzio, dall’altra parte del tavolo. «Tutti, in fondo, lo cerchiamo».
«Già…», disse il comandante.
Poi tornò al bancone e disse al barista: «Metti in conto un caffè anche per loro».
Pagò e si avviò al binario.
Capitolo 7 – Il treno sta arrivando
Dove stai andando, Farfallina?
Via. Vado via.
Non puoi tornare a casa…
Altrove. Ci sarà un posto…
Nessuno ti vuole.
Zitta.
Sei tutta ossa.
Stai zitta.
Quanto pesano le tue ossa?
Ti ho detto di stare zitta.
Stanotte morirai.
Non voglio.
Stanotte sarai libera.
No!
Morirai. Me lo ha detto il becchino.
Ha sbagliato.
Niente più ricoveri… niente più sondino…
Niente più fame. Niente più cibo.
Corri, Farfallina. Il treno sta arrivando.
Capitolo 8 – Le farfalle vivono un giorno solo
La telecamera di videosorveglianza aveva ripreso l’intera scena.
Il fatto era avvenuto intorno a mezzanotte, nella notte tra il venti e il ventuno marzo.
Una giovane donna, con una vestaglia bianca sporca di terra, aveva controllato il pannello delle partenze.
Era sul binario 4. Alle 23:58 si era distesa sulle rotaie con le braccia intrecciate in una preghiera.
Non si era mossa all’arrivo del treno. Si era lasciata travolgere, spezzare.
Il macchinista aveva già rallentato, ma non era riuscito a fermarsi in tempo.
Il comandante trovò il braccialetto bianco con i dati di Farfallina nei giardinetti dell’ospedale. Da lì, la finestra con il vetro rotto era ben visibile.
Una di noi è morta.
Ebbe la tentazione di dire qualcosa, durante la conferenza. Qualcosa di personale. Quanto quella vicenda gli avesse fatto male.
Mi dispiace! Mi dispiace per quella persona…
Pensò che forse, anzi, sicuramente, Farfallina poteva essere salvata.
Se era qua, stanotte, anche lei cercava amore.
E che le farfalle, in fondo, vivono un giorno solo.
«Buon viaggio, amica».
Serena Barsottelli