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In un’epica del quotidiano (Loreta Salvatore)

Quando arrivò in palestra, Fausto D. sperava di trovare un luogo accogliente. Primo giorno di lavoro: l’imbarazzo, il carattere timido e la presunta diversità costituivano uno scoglio psicologico per molti insormontabile. La tenacia ed il coraggio gli impedivano di accorgersi di ostacoli che per lui erano barriere da superare con impegno. Pensò per un attimo che non ce l’avrebbe fatta, che era presuntuoso per l’ambizione che lo contraddistingueva, nonostante la grave difficoltà da sempre sperimentata nella vita: essere accettato dagli altri per le capacità e l’intelligenza. L’analisi critica delle situazioni lo convinceva sempre più che non fosse motivo di scoraggiamento. Neppure il passato, costellato di dolore, avrebbe potuto sconfiggere la bellezza di una possibilità.
Le gambe si paralizzarono all’arrivo in un luogo denso di aspettative e di novità. Chi avrebbe incontrato? Quale prova avrebbe dovuto superare? L’espressione del volto sembrò disegnare una luce cupa e rassegnata: si stava spegnendo quel sogno nell’impatto cruciale con la realtà. D’un tratto le parole della maestra Boselli lo rinfrancarono.
«Ometto, tirati su. Devi vincere».
«Lascia la giacca di mamma» esclamò severa.
Restò come una pietra amorfa sulla soglia della “Scuola elementare Umberto I”, fisso ed immobile, traumatizzato dalla paura: i sorrisi sguaiati delle bambine, le parole sarcastiche dei bambini ed il freddo di un’aula gelarono le speranze di Fausto, che scoppiò in un pianto isterico e disperato, temendo che fosse lasciato lì in un angolo dimentico della realtà. Lo scoraggiamento ed il senso dell’ignoto lo gettarono in uno stato quasi di incoscienza. In quel momento avrebbe voluto morire, pur ignorando il significato effettivo della morte. Ma aveva visto suo nonno cadere a terra e non riaprire più gli occhi. La morte era silenzio, vuoto e nulla.
«Mostro» gli sputò addosso Mauro, un gigante che ripeteva la prima elementare.
Fausto sentì una freccia che gli trapassava il cuore nell’ascoltare quell’insulto. Vi era abituato: sguardi che fingevano indifferenza, gesti di pietà compiuti senza vera ispirazione. Sapeva cos’era la distanza cui l’aveva abituato la gente fin da piccolo. Per anni l’avevano fortificato come un castello imprendibile agli assalti del nemico: lo scudo non cedeva ai colpi della spada e l’elmo chiomato brillava come nei racconti epici dello zio Augusto.

«La vita devi affrontarla da eroe» lo esortava. «Ettore combatté contro Achille, pur sapendo che fosse un’impresa difficile. Tu combatterai sempre contro gli altri, ma dovrai essere giusto».
Pur non comprendendo il senso del discorso, la parola eroe si scolpì nell’intimo come il significato di una verità assoluta e profonda. In quella lezione, da osservare per il resto della vita, colse una saggezza che altri non avevano.
Crescendo, si era chiesto chi fosse Ettore e contro chi dovesse combattere. Lo comprese dopo.
Quello sputo, l’umiliazione subita, furono paradossalmente un motivo di risalita e di rinascita. Il dolore trasforma e rende aperti al bisogno di essere, superando valichi e montagne, soprusi e parole dette per indifferenza o per viltà.
Quel giorno si staccò dalla madre e si lasciò prendere la mano dalla maestra. Ce l’aveva fatta. Ettore avrebbe affrontato Achille. Da allora la frase: «Devi vincere» si impresse a caratteri cubitali nel fondo della sua mente. Desiderava sentirsi uguale agli altri: il premio desiderato della vittoria.
A scuola la maestra Boselli lo mise al primo banco e tutti riuscirono a creare un clima di affetto e di socializzazione. I giochi della maestra lo facevano sentire parte integrante del gruppo, anche se non sempre ne era all’altezza. Troppo difficili per tutti.
Un pomeriggio il titanico Mauro lo sfidò nella lotta nel cortile della scuola. Fausto affrontò con scaltrezza il gigante, sebbene fosse consapevole di non essere alla pari come forza. Con uno scatto si liberò dalla morsa cui l’aveva destinato e si aprì con fare maldestro con un colpo di karate. L’intuizione lo aiutò notevolmente fino a che Fausto cadde a terra tramortito. Il signor Paolino dalla bassa statura e dalla corporatura tozza accorse senza respiro, imprecando la maledizione dei due, ma s’impietosì alla vista di chi era stato sconfitto.
«Vieni, ch’ ti ci metto la tintura di iodio» gridò «e tu mammone grosso vattenne!»
Lo sguardo violento del gigante l’intimorì a tal punto che sentì caldo sul pavimento dov’era disteso.
Per fortuna Paolino lo medicò e lo consolò dell’accaduto, ricordandogli che cose del genere accadevano ordinariamente e che si trattava di una vera propria prova di iniziazione alla vita scolastica e di gruppo. Il senso della sconfitta non matura solo vendetta, ma talvolta desiderio di perdonare in un fare paradossale ed incomprensibile; misurarsi con qualcosa di insuperabile e di strano. Cercare di vincere, sentire ambizione per raggiungere il traguardo, era vita. Così, superati i dolori per quell’atto vile ed inaccettabile, un giorno la maestra gli propose di correre per il Coni: una gara regionale.
La maestra Boselli lo accompagnò personalmente al campo sportivo, mentre la classe faceva il tifo per lui sui gradini e Mauro si stava rodendo per l’invidia. Al momento dello start sentì che non ce l’avrebbe fatta e che le gambe stavano indebolendosi e cedendo alla paura.
«Eroe, sei un eroe».
Le parole gli produssero un’eco che si moltiplicò dentro come un rimbombo e che esplose in uno scatto iniziale, allentando l’inerzia di partenza fino a spiccare oltre la linea dell’orizzonte offuscata di grigio. I muscoli sciolti si protesero in un volo aperto e libero verso il traguardo e l’incredulità dei presenti. Tra le acclamazioni e gli applausi generò dentro di sé quella forza costruttiva che è fatta di autostima e che è irradiata dall’accoglienza e dalla positività del mondo che ci circonda. Per tali motivi Fausto stava crescendo, staccandosi faticosamente dalla frustrazione ed illuminato dalla fiducia nelle proprie possibilità che gli altri comunicavano attraverso l’amicizia e la positività del loro agire. Anche Mauro quel giorno gli tese la mano e lui gliela porse senza esitare, perché aveva vinto a modo suo anche contro il titano e la sua forza che sprigiona odio verso la diversità.
Purtroppo finì l’incanto e la maestra Boselli, durante un’escursione, si addormentò per sempre e lui la vide come scolpita nel sonno della propria infanzia come colei che lo aveva reso in qualche modo autonomo nella propria condizione altra e lo aveva educato al sogno, a non demolire le attese, anzi a costruire attese possibili e non frutto di astrazione, bensì razionalmente plausibili e misurate al sentire di ognuno. L’idea di morte gli sembrò più tangibile e vera. Aveva così sentito dentro di sé nascere il desiderio di essere per altri il testimone di una lezione di vita che avrebbe potuto ridare coraggio a chi non ne aveva possibilità. La vita si può vivere da eroi in un quotidiano essere che ti sfida a scelte crescenti e sempre più ostili. Quando si sente, si ha il dovere di donare.
Crescendo, aveva imparato a liberarsi dalle paure, anche se la Scuola Media lo metteva a dura prova con difficoltà rigide e smisurate: pagine incomprensibili, la difficoltà di scrivere correttamente una frase e le parole dette non coincidevano talvolta con quello che pensava. Il coraggio rifioriva con passione nell’età dell’adolescenza, avendo maggior coscienza delle progettualità di vita che sentiva crescere dentro. Anche l’amore gli sembrava un quid lontano ed imprendibile, sebbene sentisse di poter donare quella profondità di vedere il mondo nel condividere ogni istante con qualcuno che avrebbe sentito lo slancio di accoglienza, a cui sentiva di giungere solo in un’unione empatica, di interessi e di sentimento. Ma un giorno accadde l’imprevedibile: Miriam, dalla lunga treccia bionda, e dal viso punteggiato di lentiggini, gli sorrise mostrando l’apparecchio dei denti. Sebbene non fosse il sorriso di una Madonna, a lui parve il viso di un putto angelicato e da allora incominciò a provare un primo innamoramento, non riuscendo frattanto a spiegare ciò che sentiva e che era completamente diverso dall’affetto per i genitori. La tempesta che si scatenava quando le era accanto era tale da confonderlo fino a farlo farfugliare e diventare incapace di organizzare una frase che avesse senso logico, non perché non ne avesse l’abilità, bensì semplicemente perché non riusciva a dominare quella forza espansiva e vulcanica che produceva un slancio verso l’oggetto amato e desiderato. A tredici anni le diede il primo bacio e gli sembrò che lei avesse un sapore dolciastro e addirittura le labbra odorassero di frutta candita e di zucchero filato. L’immaginazione gli aveva provocato quel libero gioco ed armonico tra ragione e verosimiglianza, oltrepassando il piano razionale degli eventi e proiettandosi nella costruzione di un sé positivo. La vita gli stava sorridendo. Le paure si stavano dissolvendo oltre la nebbia in un immaginario che raccoglie simboli e tracce di un’onirica visione del futuro. La corsa che l’aveva liberato da un recondito timore si specchiava in un percorso coraggioso in ascesa.
L’ebbrezza della libertà e dell’essere padroni del proprio corpo lo spinse ad imprese epiche, come scendere col deltaplano fluttuando attraverso il sereno e le nubi a frotte che vedeva da lontano come uno spettacolo informe e quasi dipinto con l’acquerello. Toccare con mano un’idealità che era da sempre sfuggita al reale lo indussero ad una ferma considerazione: dar vita ai sogni, concretizzare la dimensione ideale attraverso il vissuto cercato con dolore. Sapeva bene quanto fosse faticoso, ma avrebbe lottato per quei diritti che gli appartenevano per natura e che la società aveva talvolta violato in nome di una cultura ingiusta e che non consente di essere come sei.
Percepire l’aria e la leggerezza era una certezza che nessuno avrebbe più contaminato con pretese o verità presunte. Sarebbe stato libero e non schiavo dei pregiudizi.
Affrontò prove che lo misero a dura prova, generando delusioni ed umiliazioni, come quando Miriam gli disse addio all’improvviso e senza alcuna giustificazione. Restò da solo sulla panchina a pensare che dopo anni non avrebbe potuto vivere senza l’amore e la presenza di lei che era stata quello che si definisce Infinito ed Assoluto. E dal quel momento comprese che l’Assoluto può anche crollare e l’Infinito è una quantità misurabile. Nei paradossi della vita l’amare stesso è l’evento più disarticolato che possa accadere e tra gli eventi l’unico deprivato a poco a poco dell’essenza più autentica.
Una sera trovò la madre riversa sul pavimento. Una smorfia aperta al riso le si era impressa sul volto. Capì che era felice di quel passaggio. La morte poteva essere sconfitta dalla volontà di credere nel bene e dal pensare che nel bene si racchiude la possibilità di un cambiamento verso una dimensione umana e solidale. Nel volto dell’altro.
Fausto imparò a superare la paura del non essere più, convincendosi che siamo in forme diverse. Si educò all’impegno ed al sacro, come strumento per poter decodificare un mondo insensato e caotico, pervaso dalla violenza. Quest’autoeducazione al bene ed al giusto lo resero inespugnabile agli attacchi, alle risatine, alle offese, guardando al perdono come fonte di un agire secondo ragione. Eroe di un reale frammentato e liquido, in un’epica del quotidiano, imparò a disporsi verso gli altri e a lavorare in gruppo, rispettando anche le idee altrui.
Così quel giorno a venticinque anni Fausto D. varcò la soglia della “Palestra Falcone” per sostenere un colloquio di lavoro per l’assunzione ad un posto di istruttore e per la riabilitazione di bambini diversamente abili, perché aveva compreso quanto dolore potesse nascondersi dietro un banale sorriso.

 

Loreta Salvatore

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