Siete in viaggio, la vostra auto sbanda e si sfascia contro un albero. Sbalzati fuori dall’abitacolo ma ancora vivi, arrancate sulla strada fino a quando un furgoncino privato vi raccoglie per portarvi al più vicino ospedale pubblico. Quell’ospedale non vi fa entrare: non c’è posto, non è compito nostro e poi il furgoncino è di gente di un’altra città; che vi portino al loro di ospedale, vi dicono. Ma all’altro ospedale vi rimbalzano e poi la strada per arrivarci è troppo lunga. E così rimanete lì, voi e i vostri soccorritori, bloccati in una piazza mentre tutti vi stanno a guardare, in attesa che qualcuno vi faccia scendere e vi presti le cure necessarie.
Ecco cosa succede alla Sea Watch 3. Con 47 migranti a bordo, più l’equipaggio, si trova in mare dal 19 gennaio con il divieto di attraccare. Non solo. Da stamani, la Capitaneria di Porto di Siracusa ha emesso un’ordinanza: il divieto assoluto di navigazione, di ancoraggio e di sosta nel mezzo miglio intorno alla nave. Un fettucciato immaginario, potremmo dire, una linea debole che però contiene di tutto: le regole del mare, la Costituzione, i diritti dei migranti, gli accordi internazionali e buona fetta della nostra etica collettiva.
La Sea Watch è una nave privata, battente bandiera olandese, e secondo il diritto internazionale ogni nave ha una “casa” che ne detiene la responsabilità, quindi l’Olanda ha l’incombenza di questi migranti. Ciò in buona sostanza è quello che dice Luigi Di Maio. Ma le regole del mare ci dicono che in caso di salvataggio in acque internazionali è verso il primo porto sicuro che ti devi dirigere, per prestare le cure necessarie;questo quello che dice l’equipaggio della Sea Watch (accusato, da una certa fantasiosa parte politica, di aver scelto maliziosamente l’Italia come porto più vicino). La Costituzione, poi, concede il diritto di asilo, che in caso di minori è totale e incondizionato: non è possibile respingere i minori e sulla Sea Watch ci sono 13 minori di cui 8 non accompagnati. E in questo cumulo di regole, di rimbalzi, inchieste, prese di posizioni politiche e dimostrazioni di forza, il fettucciato tra noi e la Sea Watch, tra di noi come esseri umani, si allarga.
Matteo Salvini non si arrende, così dice. La sua è una questione di principio. Cosa saranno mai 47 migranti (da lui definiti “clandestini”: ma prima dei controlli nessuno è clandestino. Ecco ancora regole), viene da chiedersi. Non servono i dati sull’immigrazione per capire che non saranno 47 persone a mandarci in default come Stato. Per altro, nel 2018 sono sbarcati in Italia circa 23 mila migranti e Matteo Salvini era già Ministro dell’Interno e già parlava di chiudere i porti; difficile poi stabilire quanti migranti siano arrivati via terra, soprattutto dai Paesi dell’Est Europa. Insomma: 47 persone, in mare da oltre 10 giorni, di cui 13 bambini non sono poi così pericolosi. Lo diventano quando la Sea Watch è l’ultima nave esistente a salvare i migranti in mare, l’ultima a prestare soccorso, a farsi portavoce di un compito civile tanto ovvio quanto urgente.
Quei 47 migranti rappresentano la pelle su cui giocarsi una battaglia politica che ha molto a che vedere con gli interessi personali, le promesse elettorali, la stabilità delle poltrone, la solidità delle reputazioni prima che con la logica e con le risorse effettive dell’Italia come Stato e come porto. Persone usate come campo di battaglia.
Dalla Sea Watch non si scende e nemmeno ci si sale. A svettare è invece la mancanza di buon senso e l’incapacità di comprensione delle regole civili e internazionali degli Italiani, figli minori di un’ignoranza volontaria che ci farà colare tutti a picco.
Alice Porta