Quel giorno quasi nessuno andò a lavorare: l’eclissi totale di sole era attesa per le quindici e trenta.
Chi poté caricò sull’auto familiari, cani e provviste e partì per il Monte del Faggio, da lì si sarebbe goduto in tutta calma quel raro spettacolo che la natura stava per offrire.
Tutti, muniti di occhiali da sole o di semplici pezzi di vetro affumicati, erano con il naso all’insù quando lentamente i due astri iniziarono a sovrapporsi.
Un cane cominciò ad abbaiare, un paio di altri guaivano sommessamente. Nell’aria l’eccitazione era palpabile.
Due gatti randagi si guardarono attorno, parevano annusare l’aria, poi scapparono chissà dove con la coda fra le gambe.
La luna, inarrestabile, aveva ormai oscurato il sole per metà. La temperatura era scesa di qualche grado. I più previdenti indossarono una maglia pesante.
Un pipistrello comparve nel cielo. Il suo sbatter d’ali sembrava titubante e incerto.
Una rondine, sorpresa da quell’improvviso imbrunire, uscì dal piccolo stormo con cui sino a pochi attimi prima aveva volato, e ora disegnava nel cielo dei cerchi concentrici, abbassandosi pian piano verso il suolo.
Un cavo telefonico sospeso tra due pali era sotto di lei. L’uccello parve guardarsi in giro, indeciso forse sul da farsi, poi vi si appoggiò, artigliandosi saldamente con le lunghe unghie ricurve.
Il sole era diventato una mezzaluna luminescente, lo scuro disco della luna, ora perfettamente visibile, sembrava in procinto di inghiottirlo del tutto.
Anche l’abbaiare del primo cane si era tramutato in sordo lamento. In quel latrato era racchiusa tutta l’ancestrale paura per qualcosa che non si comprende.
Un allocco si staccò da un vecchio faggio. Qualche tempo prima vi aveva trovato un grande buco, forse scavato da un altro animale, così se ne era impossessato trasformandolo nella sua dimora.
L’animale avvertiva una sensazione strana, come se avesse dormito troppo poco, ma il richiamo del buio gli fece vincere la stanchezza, e capì che doveva volare.
Volteggiò qualche istante, ma le ali gli facevano male. Si disse che forse era il caso di riposarsi qualche istante, la caccia quotidiana avrebbe potuto aspettare, così si lasciò scivolare tra gli aliti di un vento leggero e si posò sul filo del telefono.
«E tu chi sei?» fece l’allocco vedendo quello strano esserino nero posato al suo fianco,
«Un balestruccio, e tu?»
«Un allocco. Perché non ti ho mai vista?»
«Neppure io ti ho mai visto.»
Ora il sole era ora una soffusa luminescenza nascosta dal disco nero della luna, «Perché hai gli occhi così grandi?» continuò curiosa la rondine,
«Perché vivo di notte, e quindi la natura mi ha dato due occhi grandi per poter vedere anche al buio, ma tu come fai a vederci? I tuoi occhi sono minuscoli.»
«Perché io vivo di giorno, sai c’è tanta luce e così la natura mi ha fornito di occhi piccoli piccoli.»
«Però hai le ali grandi, che te ne fai?»
«Quando qui viene freddo io emigro insieme alle mie compagne. Il viaggio che facciamo è molto lungo, e le mie ali grandi e forti mi permettono di non stancarmi.»
«Che animali strani che siete, che bisogno c’è di cambiare casa ogni inverno? Invece di ali grandi la natura non poteva mettervi addosso delle altre piume, così da sopportare il freddo? E poi vivere di giorno, che ci sarà mai di bello?»
«Anche voi siete animali strani. Vivete in un buco e vi muovete al buio», rispose la rondine un poco risentita, «e comunque non hai proprio idea di cosa ti perdi vivendo la notte.»
«Non penso proprio», ribatté l’allocco in tono acido, «credimi, non c’è nulla meglio del vivere tra le tenebre.»
Mentre i due uccelli erano presi nelle loro schermaglie il sole era ormai scomparso del tutto.
«Senti», disse il balestruccio rabbrividendo e stringendo forte le ali contro il corpo per cercare di riscaldarsi, «perché non facciamo una cosa?»
«Cosa?» il tono dell’allocco era annoiato,
«Visto che ormai sei qui perché non aspettiamo che torni il sole, e poi vieni a fare un volo con me, così ti mostro un po’ di cose che di notte non vedresti mai?»
«Uhm», rifletté il rapace, «si può anche fare, così mi convincerò ancora di più che di giorno non c’è nulla di bello.»
«Vedremo…» ribatté la rondine con un largo sorriso.
«Già, vedremo…»
Lentamente il sole stava riprendendosi la scena.
La luna si stava allontanando e la temperatura aveva cominciato a salire. Orde di umani, muniti di macchine fotografiche, binocoli e occhiali scuri cominciarono a sciamare verso le rispettive occupazioni.
Lo spettacolo era ormai finito
«Ecco un altro motivo per cui non vivrei mai di giorno», fece il rapace sbattendo le ali per prepararsi al volo
«Cioè?»
«Troppi esseri umani in circolazione!»
«Basta fare come noi: voliamo in alto e li ignoriamo. Dai, smettila di parlare e vieni con me.»
Di lì a pochi minuti una strana coppia composta da una rondine e un allocco solcava i cieli della campagna.
«Guarda», fece il balestruccio rivolgendosi al suo compagno, «questi li hai mai visti di notte?»
L’allocco strabuzzò gli occhi, «Cosa sono?»
«Si chiamano girasoli, perché il loro fiore segue la direzione del sole. Ti piacciono?»
«Sì, sono bellissimi, ci possiamo abbassare per vederli meglio?»
Dopo aver sorvolato, quasi sfiorandolo, il grande campo di fiori, i due uccelli ripresero quota.
«E adesso dove mi porti?»
«Un po’ di pazienza e vedrai», si limitò a rispondere la rondine compiendo un’ardita virata che l’altro vece fatica ad imitare.
«Quanta acqua, e che bel colore azzurro, mi fanno quasi male gli occhi», fu il commento del rapace quando sorvolarono un piccolo lago, «e quei grandi animali bianchi cosa sono?»
«Si chiamano cigni e sono uccelli come noi, ma è meglio non andar loro troppo vicino perché hanno un brutto carattere. Adesso però devi volare senza far rumore, ti voglio mostrare un’altra cosa.»
La coppia arrivò ai bordi di un parco e si posò sul ramo di un alto tiglio.
«Adesso seguimi», ora la voce del balestruccio era un sussurro, «ma cerca di non farti vedere.»
Con dei piccoli voli, passando di ramo in ramo, e rimanendo sempre al riparo delle fronde degli alberi più alti, arrivarono ai bordi di una piccola radura.
«Guarda!», la rondine indicò sotto di sé, «non sono buffi?»
«Perché quegli uomini sono così piccoli? E perché gridano?»
Il balestruccio sorrise a tanta ingenuità, «Non sono uomini piccoli, ma bambini.»
«I cuccioli degli uomini vuoi dire?»
«Esatto, e strillano così perché giocano. È il loro modo per esprimere la loro felicità.»
«Sono teneri…»
«Sì, tanto. Peccato che poi la maggior parte di loro si guasti diventando grande…»
I due uccelli volarono ancora a lungo. La rondine mostrò al nuovo amico, fiori, animali, piante e mille altre cose che lui non aveva mai visto, poi stanchi si posarono sulla cima di un alto pino. Lo sguardo rivolto a ovest.
«E adesso cosa mi fai vedere?» gli occhi del rapace brillavano.
«Aspetta…» si limitò a rispondere l’altra.
Il sole all’orizzonte si stava abbassando a vista d’occhio. Il rossore del cielo era così forte che a un tratto l’allocco ebbe l’impressione che si incendiasse. Alcune piccole nuvole si muovevano come rosei vascelli trasportati da una brezza leggera.
«Non… non ho mai visto nulla di più bello», balbettò l’allocco.
La rondine fissò lo sguardo del grande uccello, e in quegli immensi occhi neri scorse due lacrime. Non capì se fosse frutto della stanchezza, perché non era abituato alla luce del giorno, o si trattasse di commozione.
«Penso che sia ora che ritorni al tuo nido», si limitò a dire.
«Sì, lo credo anch’io.»
«Allocco, posso chiederti una cosa?»
«Dimmi balestruccio»
«Perché domani notte non mi fai da guida nel tuo mondo, sono convinta che anche tu abbia mille bellezze da mostrarmi.»
L’allocco sorrise, aprendo il suo buffo becco adunco, «Sai che stavo per chiedertelo io? Però dovrai fare molta attenzione, perché con quegli occhietti che hai, non vorrei andassi a sbattere contro un albero.»
Duilio Parietti