Raccontami una storia logo

La strada è la mia casa (Rossella Triggiani)

Gli enormi palazzi dei primi anni del secolo passato, costruiti a mattoni rossi impilati per durare, e tuttavia oggi disabitati, presentavano, come unico intermezzo a lisce facciate, finestre ben incassate nelle mura esterne, come a preservarne gli abitanti da sguardi indiscreti o intemperie improvvise. Per amore di continuità, identiche nicchie correvano a piano terra lungo tutta la facciata, riparate sommariamente dai davanzali delle finestre al primo piano, offrendo riparo ai più fortunati tra i senzatetto della città.

Passavo di lì per caso quella mattina, il mio primo giorno di lavoro mi aveva portata fuori dai percorsi abituali prestandomi occasione per scenari inusuali, che mi godevo, con andamento lento, nella calda giornata estiva fuori stagione.
Una piccola folla attirò i miei passi curiosi, guardavano tutti una di quelle macchine delle municipalità per lavare le strade mentre gli operatori erano intenti a ripulire con attenzione la prima delle tante nicchie. Dai commenti degli astanti capii che quella notte una senzatetto era morta, sola, in quella rientranza, e il comune si preoccupava di “sanificare” l’ambiente nella speranza, vana, che più nessuno turbasse il decoro di quella via dopo di lei, ricavando da quel buco la propria casa.
Le nicchie erano vuote, i fantasmi che le abitavano, come ogni fantasma che si rispetti, scomparivano all’alba, persi nella loro quotidiana ricerca di cibo, alcol, spiccioli, calore, calore umano? Mi soffermai ad esaminare con attenzione quello che di solito guardavo con la coda dell’occhio. Dappertutto cartoni, molti cartoni, e poi buste di plastica, vecchi quotidiani, un thermos, bottiglie vuote, alcune di acqua, altre di vino o liquori a buon mercato, quotidiani antichi, un cuscino grigio cemento, coperte bucate, polvere e sudiciume, escrementi.
In mezzo a tanta esposizione di tristezza un particolare colpì i miei occhi, allargandoli di meraviglia. Sul davanzale della finestra al primo piano di uno di quegli anfratti, a portata di braccio di chiunque, una fila di libri consumati da ripetute letture, frequenti traslochi, polvere di strada e pioggia di cielo.

Quella visione mi colpì fisicamente con una stretta allo stomaco.
Chi viveva lì?
Come poteva un amante della lettura vivere in quel modo?
Allora i barboni non sono forse solo ubriaconi e scansafatiche.

La sera stessa, non passai per caso ma per scelta, ero alla ricerca della persona che tanto mi aveva stupita con i suoi libri mescolati alle sue sventure.
Seduta ad un tavolino del bar di fronte osservai con attenzione un uomo molto alto, molto magro, molto sporco, accoccolato sulle coperte, leggere, a lungo, con il libro spostato fuori dalla nicchia a favore della luce del lampione.
Capelli e barba grigia coprivano un volto segnato di cui era impossibile immaginare l’età.
Nel buco in cui viveva, a parte i libri, sembrava mancare tutto, niente buste, né borse, nessuna bottiglia, niente cibo o acqua, niente.
Stavo scoprendo un mondo che finora avevo solo blandamente immaginato, senza interesse, come per un gioco di società, come per una discussione superficiale.
Provavo delle emozioni forti senza riconoscerle. Mi lavai la coscienza posandogli accanto un caffè e latte bollente senza guardarlo e scappando via dalla vergogna.

La sera dopo ero lì di nuovo.
Avevo portato un libro.

«Le ho portato un libro gli dissi», raccogliendo la voce giù dalle ginocchia, e lui, prendendolo delicatamente con dita da pianista, mi chiese se ero la stessa che ieri gli aveva offerto un cappuccino. Poi scoppiò a ridere, una risata roca, da fumatore, ma piena, di gusto. «Ieri ha voluto nutrire il mio corpo e oggi vuole nutrire la mia anima?».
Rimasi ferma, in piedi vicino a lui semisdraiato nella sua cuccia di cane, zitta, guardandomi i piedi e dondolando appena appena, come una bambina appena colta in fallo, fino a quando non mi chiese di sedere accanto a lui.
Restammo in silenzio il tempo che lui credette necessario a smaltire il mio imbarazzo e poi si presentò. «Mario, mi chiamo Mario. Che altro vuoi sapere?»

Passammo lì tutta la notte a raccontare, io la mia piccola vita borghese, lui la sua vita da romanzo.

«Cinquantadue anni da compiere, forse il mese prossimo, non ho calendari con me, da cinque vivo per strada, mi arrangio, da una settimana ho trovato questo posto e non mi lamento. Nei dormitori pubblici non c’è molto posto e poi non sai mai chi ci ha dormito su quel materasso prima di te».

E di nuovo quella risata, quasi sensuale.
Mi stupì la sua ironia invincibile in quella situazione, avendo sempre associato l’ironia all’intelligenza. Poteva un uomo intelligente vivere così?

Non dovetti porgli molte domande, aveva voglia di parlare, come se da troppo tempo il suo silenzio lo avesse stancato.

Maestro di scuola per venticinque anni in una scuola privata di quartiere, laureato in lingua e letteratura italiana, una ex moglie, un ex figlio. Chiuse gli occhi per un minuto intero strizzandoli forte pensando così, invano, di trattenere le lacrime. Lasciai che il momento passasse e poi gli dissi: «racconta, se vuoi».

«Appena mi hanno assunto mi sono sposato, mia moglie lavorava senza contratto in un ufficio e volevamo un figlio ma appena è rimasta incinta l’hanno licenziata, con uno stipendio solo potevamo farcela stringendo e così fu fino a cinque anni fa. Avevamo persino messo da parte dei soldi per il futuro del bambino, tutti i mesi fino a quando mia moglie si ammalò di tumore. I soldi volarono via dalle mani tra medici privati, medicinali costosi, viaggi negli ospedali migliori ma mia moglie guarì. Non fu semplice starle vicino, la sofferenza fisica non era nulla confronto a quella psichica, la paura di morire, di lasciare il bambino da solo l’avevano segnata nell’anima.
Ma avevano segnato anche me, lasciato solo a camminare al suo fianco.
Arrivai a provare nei suoi confronti una specie di insana gelosia per tutte le attenzioni che le riservavano parenti e amici che si prodigavano con lei e a me riservavano solo qualche pacca sulle spalle. Non capivo, al tempo, come questo non fosse altro che un vano tentativo, per ciascuno di loro, di dissimulare l’imbarazzo che li coglieva al cospetto di un marito considerato già vedovo.
Mia moglie guarì, miracolosamente e inaspettatamente.
E curò le ferite dell’anima più in fretta di me, grazie al conforto di un vicino compiacente che la aiutò a fare di me, in breve tempo, un marito e un padre separato.
Insomma era destino, o vedovo o separato, qualcosa mi doveva capitare per forza».
E la sua risata si fece amara.
«Il lavoro l’ho perso per colpa mia».
«Il giorno in cui firmammo la separazione, mia moglie ottenne l’affido di nostro figlio come conseguenza naturale della nostra decisione, comprai una bottiglie di gin e mi chiusi in casa.
Con lentezza e gusto bevvi tutta la bottiglia e stramazzai al suolo, per essere svegliato, all’alba dalla solita inopportuna sveglia che tutte le mattine mi riportava ai miei doveri di ex marito ex padre e a breve ex maestro.
Mi trascinai a scuola in pietose condizioni, convinto di essere sobrio, nell’illusione di tutti gli ubriachi, ma a quanto pare fu subito chiaro ai presenti quanto avessi bevuto, appena riversai nell’atrio della scuola, la colazione del giorno prima e tutto l’alcol che ancora non era entrato in circolo.
Fui licenziato in tronco e me lo meritai in pieno.
Lo spettacolo era stato indecoroso.
Nessuna recriminazione.
Nessuna casa, nessuna famiglia, nessun lavoro.
E’ incredibile quanto le cose possano precipitare vorticosamente trascinandoti nell’abisso.
Solo un anno prima eravamo felici.
Da allora la strada è la mia casa, a volte accogliente, a volte meno, spesso sono solo, stasera magicamente in compagnia. Non è poi così male come sembra. Del resto non ho perso tutto, ho ancora i miei libri, e stasera uno in più».

Restai in silenzio a testa bassa per parecchio tempo. Non avevo il coraggio di leggere nei suoi occhi la disperazione che mascherava con uno tono brioso da conversazione futile.
Ebbi paura di essere futile anch’io.
Poi gli presi la mano, sporca, rugosa, dura e lui la ritrasse con vergogna.

«Tornerò domani» gli dissi e mi avviai a passo svelto verso casa.
Casa, con un letto, cibo, acqua per lavarsi.
A passo svelto e a testa bassa.

La sera successiva non c’era, solo cartoni e un posto vuoto.
Tornai ostinatamente per cinque sere, almeno una per ogni anno pensavo meritasse, prima di capire che non l’avrei più incontrato.

Avevo imparato quello che da quel maestro potevo imparare.

Ho imparato che c’è sempre una storia di dolore dietro le apparenze, anche quando queste sono buone, e possiamo restare in superficie senza porci domande, ma quando ciò che appare non è buono per niente, può essere difficile passare oltre senza guardare, o estremamente semplice.
Dipendeva da me.
Io quella sera non passai oltre e questo mi cambiò la vita.

Rossella Triggiani

Please follow and like us:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *