Si parla con un certo orgoglio dell’eccellenza italiana nel campo del doppiaggio, ma non si può dire altrettanto a proposito delle traduzioni di titoli di film stranieri, talvolta davvero imbarazzanti. Se vi siete imbattuti in una improbabile versione nostrana di un titolo che, in lingua originale, suonava in modo del tutto diverso, potreste aver attribuito il fatto all’opera di un ubriaco o di un simpatico burlone. E invece no: dietro a certe scelte stilistiche di pessimo gusto c’è il lavoro di seri e navigati professionisti.
La storia del cinema fornisce innumerevoli casi di nomi alterati e “licenze poetiche”, e soprattutto insegna che, dal western al thriller, dalla storia d’amore al dramma ecologista, nessun genere cinematografico o tema è escluso dal rischio.
Tanto per citarne alcuni, “Vertigo” è impietosamente mutato in “La donna che visse due volte”, “The sound of music” si trasforma in “Tutti insieme appassionatamente”, “The outlaw Josey Wales” è cambiato in “Il texano dagli occhi di ghiaccio” e “The seven year itch” diventa “Quando la moglie è in vacanza”.
Come è facile intuire, la tendenza alla storpiatura non si deve tanto alla scarsa padronanza della lingua inglese da parte del pubblico, quanto alle esigenze commerciali: i traduttori cercano di massimizzare l’efficacia comunicativa del titolo per raggiungere un determinato target.
Tra le molteplici strade da intraprendere per portare lo spettatore al cinema, va per la maggiore il tentativo di sfruttare il successo altrui creando ad hoc titoli che suggeriscano ipotetici legami con film che hanno riscontrato un certo favore da parte del pubblico: la popolarità di “Il mio grosso grasso matrimonio greco” ha ispirato “Le mie grosse grasse vacanze greche” (“My life in ruin”) e “Il mio grosso grasso amico Albert” (“Fat Albert”); la commedia “Tre uomini e una pecora” (A few best men”) strizza l’occhio a un nutrito elenco di predecessori, tra cui “Tre uomini e una culla” (“Trois hommes et un couffin”), “Tre scapoli e un bebè” (“Three men and a baby”), “Tre uomini e una gamba”.
Non dimentichiamo i titoli “azione/reazione”: “Se scappi ti sposo” (“Runaway Bride”), “Prima ti sposo, poi ti rovino” (“Intolerable Cruelty”), “Se ti investo mi sposi?” (“Elvis has left the building”) e, ciliegina (si fa per dire) sulla torta, l’abominevole “Se mi lasci ti cancello” invece di “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (in italiano “infinita luce della mente pura”, meraviglioso verso dell’opera “Eloisa to Ableard” del poeta inglese Alexandre Pope).
Altre volte il titolo viene banalizzato all’estremo per renderlo più “nazional-popolare”, come se solo i film d’autore avessero diritto a sfoggiare nomi altisonanti: il divertente “Cloudy With a Chance of Meatballs” viene trasformato a favore di un più mediocre “Piovono Polpette”.
Si contano sulle dita, ma comunque esistono, casi in cui l’adattamento del titolo, seppur stravolgendone il senso autentico, risulta più efficace dell’originale: pensiamo a “L’attimo fuggente” (“Dead Poets Society”), “Quarto potere” (“Citizen Kane”), “Ombre rosse” (“Stagecoach”) o “Intrigo internazionale” (“North by Northwest”).
Un maggiore rispetto nei confronti del pubblico pagante da parte di traduttori/adattatori sarebbe gradito, ma finché lo spettatore non deciderà di snobbare certe becere propensioni, un’inversione di tendenza sembra davvero improbabile.
Annalisa Sichi