Il cibo è uno dei pilastri dell’identità personale e culturale. Può esserlo anche di quella artistica, come nel caso di Leone Contini, fiorentino che da anni riflette sulle pratiche legate al cibo in contesti migratori. Con la mostra itinerante Manifesta 12, quest’anno ospitata a Palermo, il lavoro decennale dell’artista è culminato nell’installazione Foreign Farmers, visitabile fino al 4 novembre ed esposta all’Orto Botanico.
Qui svariate specie asiatiche di cucurbitacee, che includono la cucuzza lunga siciliana, sorta di totem della famiglia dell’artista, fanno mostra di sé, a dichiarare mediante una metafora vegetale che si può essere simili nella diversità, e coabitare nella dislocazione. Al tempo stesso, coltivando personalmente la sua opera, Contini ha risposto in pieno alla tematica del “Giardino incantato”, in cui il giardiniere si fa metafora di colui che si prende cura degli altri.
La raccolta dei semi dei migranti
«I semi raccolti in dieci anni da diverse comunità migranti in Italia sono cresciuti e hanno dato frutto simultaneamente nell’Orto Botanico di Palermo, nella forma di pergolati coperti da cucurbitacee rampicanti e aree ad orto. Questa coabitazione è un’immagine elementare di qualcosa che nella nostra società sta diventando impensabile. Il termine “straniero”, presente minacciosamente nel titolo, è neutralizzato nel divenire stesso di questa moltitudine di piante viaggianti ma che affondano le proprie radici in una terra comune», dice Leone Contini.
L’osservatore diventa partecipe
La cura personale dell’opera segna una maturazione di Leone Contini come artista e antropologo, che passa dalla semplice osservazione intensiva alla partecipazione, assumendo in parte la natura delle persone di cui ha condiviso il tempo.
«Il contesto di Manifesta è molto specifico: si tratta di una biennale itinerante e in questo sta il suo fascino e anche la sua criticità e mi riferisco ad esempio alla necessità di re-inventare ogni due anni linguaggi nuovi con interlocutori diversi. Per questo ho deciso di “ diventare” palermitano, cioè di abitare da stanziale all’interno di un’istituzione-dispositivo nomade. Del resto la cura delle piante esige una presenza assidua: lo stesso agricoltore si radica nel territorio, insieme alle sue piante. In questa trasformazione della propria identità sta la differenza tra osservare (o installare-e-ripartire) e abitare/coltivare».
Dalla cucuzza siciliana alla Chinatown pratese
Il lungo iter di Contini nell’intreccio di cibo e arte ha avuto in parte origine da una indispensabile riflessione personale sul legame tra la sua stessa famiglia e il cibo dell’originaria Sicilia, e in parte da lunghe osservazioni delle pratiche orticole dei migranti cinesi di Prato.
«La cucuzza siciliana ha un ruolo importante nella storia migratoria del ramo materno della mia famiglia: quando ero bambino mia nonna si fece spedire in Toscana dei semi di cucuzza dal suo paese natale in Sicilia. Forse fu allora che compresi il legame elementare tra cibo e identità. Nel 2002 scrissi un piccolo testo etnografico per un esame di etnologia, a partire dalla scoperta che, in un ristorante a Prato, italiani e cinesi avevano menù differenti: “Doppio registro culinario nella Chinatown pratese”. A Prato due tradizioni culinarie secolari scorrono in parallelo, senza incontrarsi».
L’incontro serrato con i cinesi di Prato
Dopo un soggiorno negli Stati Uniti e ritornato in Toscana, Leone Contini ha ricominciato a occuparsi dei cinesi. «Nel caso di Prato si tratta di una migrazione proveniente dai dintorni di Wenzhou e perfino le verdure coltivate localmente sono denominate in dialetto, io stesso ho imparato termini che risultano inutilizzabili al di fuori di questo contesto. Di fronte a un contadino che pianta semi in una terra straniera tutte le categorie dell’attribuzione di identità saltano. D’altra parte nell’era dei cambiamenti climatici siamo tutti stranieri, esuli di un ecosistema andato in frantumi».
E tramite una performance artistica pratesi de souche e cinesi hanno potuto incontrarsi e cucinare insieme.
«Nel 2011 organizzai una raviolata tosco-cinese nella zona di Carmignano. Cinesi e italiani erano locali, spesso vicini di casa da anni. È stato bello vederli finalmente interagire, non su base linguistica ma culinaria. Il “fare” ravioli insieme crea familiarità, attraverso la trasmissione reciproca di conoscenze manuali “domestiche”. Quel progetto fu supportato dal Comune e da un imprenditore cinese. L’anno successivo fu la comunità buddista di Prato a finanziare un mio intervento al museo Pecci, in quel caso gli stessi frequentatori del tempio distribuirono al pubblico italiano verdure cinesi, spiegando tecniche di cottura e ricette. Gli ambienti sterili delle sale espositive si erano trasformati in un mercato chiassoso».
Il gusto orientale per il cocomero
L’esperienza artistico-etnografica di Contini aiuta anche a comprendere l’altrimenti opaco fenomeno della grande passione dei cinesi per i cocomeri, tanto da accalcarsi nella tradizionale festa pratese per accaparrarseli.
«I cinesi sono amanti delle cucurbitacee in generale, e nello specifico grandi consumatori di cocomeri. C’è un carattere comune nel sistema di denominazione di zucche, cetrioli, angurie, perfino nel dialetto wenzhounese. Quasi una nomenclatura linneiana! per non parlare della ricchezza simbolica implicata in ciascuna varietà: aneddoti, iconografie, giochi di parole beneauguranti etc. Un modo per far uscire questa ricorrenza dal triste pantano di polemiche in cui è finita sarebbe coinvolgere attivamente nella sua progettazione i cittadini cinesi. Sono sicuro che molti imprenditori cinesi sarebbero felici di contribuire al rilancio di questa festa. Più soldi più cocomeri, e maggiore scambio di conoscenze».
«C’è molto da imparare gli uni dagli altri»
Mediante modalità via via estetiche, sensoriali e performative l’opera di Contini asserisce, in modo più immediato e meno teorico, la bellezza dell’ibridazione di fronte ai fantasmi identitari. Un primo passo sarebbe smettere di brandire il termine integrazione come una clava.
«Ricominciamo dall’interazione, che implica reciprocità. Abbiamo molto da imparare gli uni dagli altri. Ogni tanto qualcosa si è mosso sul territorio… ma generalmente gli input e le pratiche provenivano dall’esterno. A me vengono in mente possibili progetti, perché in astratto non riesco a pensare: mentre rispondo alle domande immagino “la nuova festa del cocomero pratese”, per smorzare il conflitto e togliere argomenti a chi predica discordia, o “la sagra del raviolo Tosco-Cinese”, che a Carmignano funzionò bene. Firenze è vicina e migliaia di turisti non vedono l’ora di prendere il treno per visitare “Chinatown”, mangiare tortelli e scoprire allo stesso tempo una città Toscana inattesa, non ancora trasformata nel gadget shop di un museo. Il futuro comunque lo immagino ibrido, o non lo immagino», conclude Leone Contini.