«All’inizio dell’emergenza coronavirus uno dei problemi è stato che quasi tutti i pazienti sono stati trattati come eravamo abituati a fare nei casi di grave insufficienza respiratoria. Ma la Covid-19 è una forma molto particolare, qualcosa di diverso».
«È una malattia sistemica che ha la sua massima espressione nel polmone. E sicuramente il trattamento influisce sulle mortalità diverse registrate nelle terapie intensive, a seconda della latitudine. Si va dal 5%-10% di Lugano al 90% registrato nei reparti di altri due Paesi del Vecchio continente. In Lombardia siamo a circa il 26%, ma avendo ancora tanti ricoverati potremmo finire con un 30-40%. Siccome la malattia è la stessa, non ci sono scuse: va riconosciuto che forse il trattamento o il non trattamento ha fatto la differenza».
È l’analisi di Luciano Gattinoni, decano dei rianimatori italiani, che all’AdnKronos Salute spiega i motivi di questa variabilità.
L’esperto viene visto da molti come un maestro. L’ultimo a chiamarlo in causa in questa veste è stato proprio Luigi Camporota, camice bianco dell’équipe di terapia intensiva del St Thomas’ Hospital di Londra, dove in questi giorni è ricoverato il primo ministro britannico Boris Johnson. Lo specialista di origini calabresi ha infatti spiegato di essere in contatto con diversi professori italiani e di aver «imparato molto da alcuni di loro. In particolare – ha rivelato – considero un mio maestro Luciano Gattinoni», il quale a sua volta ricambia la sua stima definendolo di «notevole intelligenza e straordinaria onestà intellettuale, appassionato e tremendamente educato».
Gattinoni, pioniere anche di una procedura ormai consolidata nel campo della gestione delle sindromi da distress respiratorio acuto – cioè la pronazione, il posizionamento del paziente a pancia in giù – traccia un quadro di quello che è la Covid-19. Una malattia che «colpisce anche rene, fegato, altri organi. Non a caso si registra perdita di olfatto e gusto. Anche il sistema nervoso viene coinvolto, centrale o solo periferico è da stabilire. Ci sono tante cose che dobbiamo ancora capire e alcune che cominciano a essere chiare».
In Italia, osserva, «oggi la situazione sta evolvendo per il meglio. All’inizio i problemi sono stati principalmente due: l’iperafflusso di pazienti, per cui molti non sono stati curati al meglio in mancanza di posti e risorse. E poi, come già evidenziato, il fatto che quasi tutti siano stati trattati come abitualmente si fa nelle classiche insufficienze respiratorie gravi. Covid colpisce prima di tutto i vasi e poi e meno la parte alveolare. I pazienti hanno un tremendo scambio gassoso e un’elasticità del polmone tutto sommato buona. Una discrepanza che non esiste nella malattia acuta respiratoria. Ecco perché non hanno dispnea», ecco perché spesso non percepiscono subito i peggioramenti.
«Solo quando si respira profondo per tanto tempo il polmone può andare incontro a una situazione di edema e risentirne. Si passa a uno stato in cui il polmone è edematoso e la situazione peggiora. Si tratta di interrompere questo tipo di pressioni intratoraciche negative – dice Gattinoni – Secondo me parecchi specialisti hanno fatto questa analisi e stanno andando in questa direzione».
In altre parole, questo ragionamento all’atto pratico si traduce nel fatto che «non bisogna fare tante cose – dice l’esperto – Occorre capire a che stadio sono i pazienti e al momento giusto intervenire con un’intubazione e lasciarli tranquilli per un congruo periodo di tempo. Se cerco di svegliarli immediatamente regrediscono. Perché la malattia è ancora lì».
Altro suggerimento è dunque di «non guardare all’ossigenazione ma alla malattia». Come bisogna muoversi con i pazienti critici? Per Gattinoni è cruciale «operare sul polmone un trattamento gentile, con calma». Quello che fanno di diverso nei Paesi in cui la mortalità da Covid nelle terapie intensive è più bassa è «vedere il malato e intubarlo se dà pieni segni del fatto che tenta di respirare profondamente. Il paziente viene tenuto tranquillo con pressioni basse, e ne può più facilmente uscire». All’estremo opposto ci sono situazioni in cui «su 150 pazienti ricoverati in terapia intensiva ne sono usciti vivi solo 9. Che il trattamento diverso influisca sull’esito è indubbio a mio avviso».
Analizzando le varie espressioni della Covid sono stati descritti gli estremi di due fenotipi: quello iniziale e quello tardivo e più complicato. «Occorre osservare, misurare, avere in testa il quadro e intervenire con il presidio giusto al momento giusto. La stessa cosa può essere utile o tremendamente sbagliata». Ecco perché, conclude, «non si può prescindere dall’esperienza. Se un medico di un’altra specialità venisse messo davanti a queste scelte non saprebbe da che parte cominciare». A seconda della latitudine a cui ci si trova, dunque, «le probabilità di non essere trattati al meglio possono aumentare o diminuire».
Sulla scia di questa analisi, l’esperto auspica per esempio «che in realtà come New York cambino rapidamente le loro linee guida. È importante fare tesoro delle cose che man mano stiamo capendo della Covid. È una malattia nuova ed è logico che nessuno abbia esperienza su questo fronte. È la cosa più apprezzabile da dire».
Quanto alla sua Lombardia l’esperto è ottimista: «Se ne verrà fuori e anche la mortalità diminuirà, perché credo che ci sarà più tempo per prendersi cura di tutti i malati con competenza».