L'Inghilterra borghese verso la modernità

A Roma, l’Inghilterra borghese verso la modernità, in cento opere dai più rilevanti istituzioni internazionali e italiani, quali il British Museum, la Tate Gallery, il Victoria & Albert Museum, la Galleria degli Uffizi. Fino al 20 luglio, a Palazzo Sciarra.

La modernità, concetto difficile a inquadrarsi, che mai giunge a un assetto immutabile, perché continuo oggetto di ridefinizione sulla scorta del cambiamento del sentire della società, e dei sempre nuovi traguardi scientifici e tecnologici che essa raggiunge nel tempo. Volendo forzare il corso del pensiero, si potrebbe definire la modernità come illusione d’eternità.
Fondamentale momento di svolta, nel riassetto della società e nel cambiamento dei suoi valori, fu la nascita, a metà del XVIII Secolo, della borghesia urbana.
Prendendo a modello l’Inghilterra, la splendida Hogarth, Reynolds, Turner. Pittura inglese verso la modernità, indaga , attraverso la lente privilegiata della pittura. Curata da Carolina Brook e Valter Curzi, prima ancora che estetica la mostra è concettuale, e in circa cento opere ricostruisce l’evoluzione della società di allora, contestualizzandola nell’ambiente urbano, in quello familiare, e attraverso le tematiche richieste dalla nuova committenza borghese, ovvero il ritratto e il paesaggio.
Prima ancora della Francia con l’Illuminismo e la Rivoluzione repubblicana, l’Inghilterra del Settecento ha tracciato il sentiero di una modernità radicale, che sanciva le prime rotture con la bimillenaria civiltà rurale e artigiana, attraverso quella Rivoluzione Industriale costruita sul massiccio utilizzo della tecnologia, e che a sua volta portò alla nascita di un nuovo ceto, la borghesia urbana appunto. Era, questo, un primo punto della modernità, ovvero l’aggiornamento e la ridefinizione dei ceti più alti, che sinora erano stati rappresentati dalla sola nobiltà, terriera o militare che fosse. Il nuovo ceto si fa portavoce d’istanze, entusiasmi, e spregiudicatezze morali, estetiche, e anche finanziarie, che, di fatto, non subiranno troppe modifiche nemmeno nell’epoca degli yuppies di Wall Street. La modernità, quindi, è anche questione di atteggiamenti, e niente meglio dell’arte ne coglie acutamente l’intensità.
Londra fu il centro ideologico e morale di quella nuova modernità, ed è da quella che stava diventando una metropoli, che prende avvio la mostra romana, con una sezione dedicata alla città in trasformazione, interessata da numerosi cantieri che ne cambieranno il volto, e abitata da una nuova, numerosa folla variopinta ed elegante – per una volta lontana dalla plebe dannunziana -, che passeggia in St. James Park, oppure colta durante lo svago del pattinaggio sulla Serpentine, in Hyde Park. La vita cittadina si fa teatro.


Ad artisti quali Scott, Sandby e Marlow, i curatori hanno affiancate le vedute londinesi di Canaletto, che utilizzano dettagli architettonici quali ideali cornici, e immortalano la città con colori limpidi, quasi gli stessi che il pittore ha visti nella laguna natia. A rendere alla città la sua aura nebbiosa, ci pensarono Marlowe e soci; ma il punto, non è quello della tavolozza. Sia Canaletto sia i suoi colleghi inglesi, fissarono l’attenzione su una città che stava ridisegnando il suo assetto, sulla base di necessità logistiche dettate dal commercio: i ponti sul Tamigi, il nuovo mercato di Covent Garden, ne sono un esempio. La fascinazione per la mdoernità spicca nella bella tela L’ascesa della mongolfiera, di Ibbetson, che dispiega una minuziosa perizia nel ritrarre la folla in primo piano, folla della quale sembra quasi di sentire il grido di meraviglia che accompagna l’ascesa dell’aerostato.
Parallelamente a un’Inghilterra che sempre più andava assumendo una nuova identità, si avvertì il bisogno di una rappresentazione codificata delle sue radici storiche e letterarie, radici che quasi inconsciamente qualsiasi artista ricercava in Shakespeare, dando visibilità anche al mondo del teatro dell’epoca, come si evince dalla suggestive tele di Johan Zoffany David Garrick e Hannah Pritchard in “Macbeth”, e di Francis Hayman Spranger Barry e Mary Elmy nell’“Amleto”; in entrambe, spicca la sontuosità degli abiti femminili di scena, sintomo dell’attenzione per la moda cui la nuova borghesia non è certo insensibile; così come al fatto che il teatro è sì luogo dove vedere uno spettacolo, ma è anche platea dove farsi vedere. Ma è comunque evidente la necessità di un retaggio storico su cui fondare le radici spirituali.
Una direzione diversa contrassegna l’approccio dell’elvetico Füssli (poi inglese di “adozione”), che interpreta Shakespeare rifacendosi alle atmosfere psicologiche dei suoi testi, creando di fatto una pittura sospesa fra dimensione onirica e storica.
Tuttavia, al di là dell’amore per il teatro, della solidità economica e dell’intraprendenza del nuovo ceto, questo nasconde lati meno virtuosi, come se la modernità fosse anche, in qualche misura, portatrice di decadenza; e senza dubbio decadono i vecchi valori. Un acuto osservatore quale fu William Hogarth, realizzò la serie di tele Il matrimonio alla moda, che costituisce una delle chiavi della modernità, valida ancora oggi per la carica innovativa che esprime; quasi fosse un corto cinematografico – vengono in mente Buster Keaton e il primo Chaplin -, Hogarth dà vita a una serie di agili scenette tratte dalla vita quotidiana di una qualsiasi coppia borghese, fra pretese d’eleganza e sciatteria che nasconde l’ipocrisia. La modernità dell’artista sta nel rendere in modo caricaturale i personaggi del gran teatro del mondo, e saranno proprio questi characters, due secoli più tardi, a fare scuola ai cineasti più avveduti. Si codifica, attraverso di essi, un modo di rappresentare la realtà, con le sue sfumature e i suoi compromessi.
A segnare la modernità della pittura inglese, fu anche il genere della ritrattistica, in un ambiente puritano che rifiuta la pittura religiosa. Pertanto, la borghesia si prestò a questo tipo di committenza, vedendovi anche la possibilità della promozione di sé, del lasciare ai posteri le tracce del proprio passaggio sulla Terra.
Hogarth e Zoffany si specializzano nel ritratto di gruppo, che riporta sulla tela usi e costumi della società dell’epoca. Del primo, colpisce Ritratto di gruppo con Lord John Hervey, dove l’ammirazione dei presenti per il progetto di una nuova villa campestre, probabilmente quella dello stesso Hervey, pone l’attenzione sulla prima architettura georgiana – ispirata al Palladio -, che si va affermando in Inghilterra, mentre Zoffany con La Famiglia Sharp, realizza un teatrale affresco familiare, che celebra la passione per la musica e lo svago all’aria aperta.
Reynolds ammanta invece di magnificenza i suoi soggetti: in Lady Bampfylde, l’accuratezza dell’elaborata acconciatura, che sembra uscire da un fotogramma di Barry Lindon, esalta l’incarnato pallido, appena arrossato sulle guance, e la sobria eleganza della veste bianca. La nobildonna diviene quasi un’eroina shakespeariana fra bianchi iris, allusione alla purezza di Ofelia o Desdemona. Sullo sfondo, una natura rousseauiana. Mentre L’attore Garrick con la moglie Eva Maria Violette, quasi ricordano una coppia reale austriaca.
Il ritratto naturalistico fu invece appannaggio di Allan Ramsay e Thomas Gainsborough. La maestria di Ramsay è al suo massimo nel ritratto di Julia Hasell, dove delicatezza dell’abito di raso rosa con nastri azzurri, e la nera capigliatura che spicca sull’incarnato pallido, producono un realismo venato di poesia vicino allo stile del francese Chardin.
Gainsborough ci tramanda invece lo spirito raffinato di William Wollaston – deputato per la città di Ipswich che condivideva con il pittore la passione per la musica -, esaltato dall’eleganza della redingote in velluto rosso e dalla fedeltà nel riprodurre il flauto e lo spartito.
Chiude la mostra, la sezione dedicata alla pittura di paesaggio, un genere molto amato dalla committenza inglese, che sancì anche la definitiva affermazione della tecnica dell’acquarello, sebbene fosse nota in Germania sin dal XV Secolo. Cozens, Towne e Sandby ne furono apprezzati esponenti, ispirandosi ai paesaggi italiani del Grand Tour. Gli innovatori del genere furono però Gainsborough e Wright of Derby; quest’ultimo predilesse ancora il paesaggio italiano, creando le sue tele sulla base del giusto equilibrio fra percezione ed emozione, raggiunto dopo lunghi esperimenti sugli effetti del lume naturale. Il paesaggio è emozione, e coscienza di essere un minuscolo punto di fronte al cosmo infinito. Gainsborough, da parte sua, preferì dedicarsi all’operosa campagna inglese, intrisa di etica protestante della Grazia che si conquista con il duro lavoro.
Eredi di questa tradizione del paesaggio, saranno Constable e Turner; nei paesaggi del primo, c’è un forte attaccamento alla resa del dato naturale; Turner, invece, non lascia mai la sperimentazione e il rimaneggiamento della tela, per raggiungere la resa perfetta di emozioni e sensazioni, che fa di lui un precursore del Romanticismo
Prendendo l’Inghilterra come pretesto, la mostra parla in realtà a livello universale, e ferma l’attenzione sul dibattuto concetto della modernità, cadendo in un momento in cui anche la Biennale d’Architettura di Venezia s’interroga sulle sue ragioni.
Una mostra da vedere, profondamente attuale, come nello stile dei grandi capolavori.

Niccolò Lucarelli

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