Il 20 maggio non si tratta,per lo statuto dei lavoratori, solo di celebrare una ricorrenza ma di riflettere sulla tutela del lavoro attraverso una delle sue leggi più importanti.
Fu pubblicato in «Gazzetta ufficiale» il 20 maggio del 1970, anche se il suo iter fu lungo, in embrione nasce da un’intuizione nel Congresso dei chimici della Cgil del 1952, Giuseppe Di Vittorio lanciò l’idea di uno Statuto dei diritti, delle libertà e della dignità dei lavoratori e vista la centralità del lavoro nella Carta Costituzionale, si può dire che la fabbrica era entrata nella Costituzione ed era necessario che la Costituzione entrasse in fabbrica.
L’idea rimase nel cassetto fino al 1963, la costituzione del primo governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro inserì lo Statuto nel programma, non fu un percorso facile né immediato.
Il biennio 68-69 fu cruciale, sia per il ruolo dei movimenti sia per la maturazione dell’idea di uno Statuto dei lavoratori nella società; “l’autunno caldo” con i cambiamenti sociali che facevano ribollire le piazze, tra settembre e dicembre del ’69 il conflitto sociale raggiunse il suo apice; 32 contratti collettivi di lavoro bloccati, che interessavano oltre cinque milioni di lavoratori, ciò alimentava continue tensioni, manifestazioni, scioperi.
Il caso più emblematico, di quella stagione, fu la devastazione di alcune linee di montaggio della Fiat di Mirafiori avvenuta il 29 ottobre, l’azienda reagì duramente e denunciò 122 operai ritenuti responsabili dell’accaduto. La tensione sociale era altissima, l’opera di mediazione del ministro del lavoro Carlo Donat Cattin evitò il peggio, Il clima nel Paese era veramente cupo, la tensione raggiunse il culmine con la strage di Piazza Fontana del 15 dicembre del ’69, che provocò 17 morti e decine di feriti, ciliegina sulla torta fu l’eccidio di Avola del dicembre del ’68 il ministro Giacomo Brodolini si impegnò solennemente a varare lo Statuto, affidando ad un giuslavorista giovanissimo Gino Giugni, con il quale sostenni il mio esame di diritto del lavoro, l’incarico di elaborare il disegno di legge.
Lo Statuto fu il perno di una grande stagione, iniziata nel ‘66 con la legge sui licenziamenti individuali e conclusasi nel ‘73 con la riforma del processo del lavoro.
Dal ‘70 ad oggi il mondo è cambiato ed anche lo Statuto, pur mantenendo una sua organicità, ha subito diverse innovazioni.
La normativa del lavoro è stata segnata da un susseguirsi di “riforme storiche e definitive” destinate ad essere superate da una ennesima riforma “più storica e definitiva” successiva. Riforme quasi sempre animate dall’italico spirito che vede la necessità del primato della legge per disciplinare il mercato del lavoro lasciando alla normativa contrattuale funzioni marginali anche per l’incertezza dell’inderogabilità delle sue statuizioni per la mancata applicazione dell’art. 39 Cost., questo sì colpevole ritardo del Legislatore.
Oggi il mondo del lavoro è cambiato, i confini dell’impresa si sono dissolti e la tappa più recente, quella dell’economia digitale, rischia di far crollare le ultime barriere.
Lo Statuto Serve ma non basta più occorrono nuove regole per affrontare fenomeni nuovi, ma soprattutto è necessario che queste regole raggiungano anche soggetti ora esclusi.
C’è stato un fenomeno globale di riduzione delle tutele, il lavoro soffre di una perdita di centralità per effetto dell’avanzare delle ragioni del mercato e dell’economia, addirittura c’è chi ha pensato di superare il lavoro con il reddito di cittadinanza.
Il mercato del lavoro mosso da accelerazioni organizzative impensabili solo fino a qualche anno fa, impongono una rivisitazione delle regole, in termini di modifica dei singoli istituti e dello stesso impianto normativo complessivo, il concetto tra rapporti di lavoro autonomo e subordinato va ripensato alla luce dei nuovi modelli economici che avanzano.
I lavoratori si trovano a saltare tra rapporti iper tutelati ad altri privi di garanzie, il popolo dei lavoratori atipici costituisce un fenomeno che non può più essere ignorato o liquidato con scelte che oscillano tra la difesa contro lo sfruttamento e ad una disciplina economica priva di ogni supporto di welfare.
Non si percepisce come l’economia digitale richiede sempre di più la presenza di lavoratori autonomi, capaci di lavorare per risultati e la cui opera sarà valutata secondo il raggiungimento degli stessi più che in base al tempo utilizzato per la prestazione.
Lo smart working diventa sempre più esperienza vicina al vissuto aziendale anche se le norme di ancoraggio sembrano riferirsi a tradizionali modalità lavorative.
Il compianto prof. Biagi auspicava un passaggio da uno Statuto dei lavoratori ad uno dei “Lavori” che potesse dare dignità ad ogni forma del “fare” umano senza, obbligatoriamente, ricorrere alla riconduzione all’una o all’altra categoria (autonomo e subordinato).
Non c’è stata lungimiranza e troppo presto si è abbandonato, sbagliando, l’idea della regolamentazione di un lavoro per fasi, per risultato, e quindi sono state non individuate o calpestate e abolite una serie di garanzie per lavoratori che saranno sempre di più inseriti in contesti lavorativi nuovi e innovativi.
Il futuro da scrivere per lo Statuto sarà quello di passare da una piattaforma di regole e garanzie per i lavoratori subordinati a un modello che consenta di fornire risposte a tutte le tipologie di lavori umani partendo dall’evidenza che prima di ogni diritto esiste un’opportunità e che un diritto senza un lavoro è inesistente.
Alfredo Magnifico