Due cose l’esperienza deve insegnare:
la prima, che bisogna correggere molto;
la seconda, che non bisogna correggere troppo.
(Eugène Delacroix)
Il 23 agosto del 1942, il Reggimento del Savoia Cavalleria passa la notte in mezzo alla steppa russa. Il sibilo del vento e il monito che la battaglia sara dura. E’ la quiete, ma increspata, prima della tempesta. Il muschio verde che cresce imperturbabile è invece per contrasto la testimonianza del tempo che passa e lascia un’orma, a volte i passi dei combattenti, a volte gli zoccoli dei cavalli, altre volte le nefaste chiazze di sangue dei feriti a morte. Tre giorni prima i Russi, oltrepassato il Don, sfondavano il fronte della Divisione Sforzesca. I settecento cavalieri del Savoia ricevono l’ordine di contenere l’avanzata nemica, muovendosi tra i villaggi di Jagodnij e Čebotaresvskij, per prendere al fianco le truppe sovietiche. Aleggia nell’aria qualcosa che assomiglia alla paura più feroce, e insieme a un’indomita temerarietà.
Arrivato in treno in Romania, il Savoia Cavalleria si era mosso a cavallo attraverso i monti Carpazi,
per le strade di Moldavia, Bessarabia e Ucraina. Milleduecento chilometri percorsi in trentacinque giorni, prima di accamparsi lungo le rive del fiume Dnieper. La stanchezza accumulata era diventata una fitta che prendeva alla testa, erano le membra trascinate con spossatezza, il continuo bisogno di sonno e la fame che spesso attanagliava lo stomaco. La stanchezza era pure la mente che vagava in un luogo lontano, pieno di piante verdi, signore premurose, titoli di giornali scritti con gratitudine e riconoscenza. Con uno sforzo di carattere e abnegazione il 28 ottobre del 1941 il reggimento, con le truppe tedesche, conquista Stalino.
La compagine trascorre l’inverno in riposo. E’ un inverno spossante, forte, impietoso. I boschi di betulle sono carichi di neve, le strade e i fiumi sono ghiacciati. La tramontana batte in viso, l’aria punge, gli occhi soffrono la luminosità abbagliante riflessa dai manti gelati. Sono lunghi mesi di neve, la temperatura media scende sotto lo zero. Ci si scalda con la legna sottratta ai boschi divorati dal bostrico, con i fornelli da campo, con indumenti pesanti indossati uno sopra l’altro. Le giornate passano coi bivacchi, con le chiacchiere nostalgiche per la famiglia, la terra, le origini lasciate, con il lavoro per il sostentamento, con la circolazione delle dottrine per irrobustire il coraggio, la virtù, l’ardimento, con qualche gioco di carte, qualche lettera da scrivere e spedire, qualche cura per lenire qualche vecchio tenace tormento.
Le operazioni riprendono l’11 luglio con l’occupazione di Krasnij Luc. Il 15 agosto, dopo una marcia di oltre quattrocento chilometri, il Reggimento raggiunge le rive del Don. Insieme ai Lancieri di Novara, il Savoia frena l’attacco sferrato dalle truppe sovietiche il 20 agosto, impedendo ai nemici di aprire un varco alle spalle dei soldati tedeschi impegnati a Stalingrado. La notte del 24 agosto 1942, dopo giorni di combattimenti, il Reggimento raggiunge quota 213,5 metri nei pressi di Izbušenskij. In attesa di riprendere il movimento verso il fiume, il Savoia si struttura in uno schieramento di sicurezza, costituendo un quadrato di armi automatiche, artiglierie e pezzi controcarro a protezione degli uomini e dei cavalli che, disposti al centro, riposano all’addiaccio.
I russi attendono l’alba per attaccare la compagine italiana. Si sono trincerati in profonde buche circondate da ampie distese di girasoli. Tutto tace e l’alba appassisce all’orizzonte, assieme agli steli
dei fiori che presto saranno divelti dalla concitazione della battaglia. L’estate è torrida, mentre il suolo è fertile. E’ terra nera ricca di sostanza organica. Si direbbe pronta a ospitare la vita, ma con un paradosso che atterrisce, si appresta ad accogliere la morte. Vladimir, tiratore corpulento, chioma bionda occhi colore del mare, abbraccia stretto il suo fedele compagno, un Mosin-Nagant 1891. In volata attaccherà la baionetta a sezione triangolare, intanto spara qualche colpo perchè così gli suggerisce l’istinto.
Il Sergente Comolli parte al comando di una pattuglia. Procede al piccolo trotto con l’idea di controllare un carro di fieno, intravisto qualche ora prima. E così, per scelta o per destino, uno dei suoi uomini più fidati, il caporale Bottini, intravede un manipolo di soldati nemici tra i campi di fiori. Vladimir Jusupov non era uno sprovveduto Alcuni nascono artisti per lasciare opere che sopravvivano loro. Altri per uccidere e sopravvivere a coloro che hanno ucciso. Quando il russo spara il colpo, Bottini cade morto. Comincia un tiro al bersaglio che non conosce pietà, i sovietici aprono un fuoco rabbioso di mortai e mitragliatrici, che investe il quadrato italiano. In guerra i carnefici sono le vittime, e viceversa.
Il colonnello Bettoni di Cazzago, comandante di Savoia, si accorge della manovra nemica e ordina al secondo Squadrone di caricare sul fianco. Si carica a ranghi serrati e sciabole sguainate, ma arrivano raffiche di mitraglia e bombe a mano. I russi dispongono a semicerchio le autoblindo cingolate, mostri meccanici che spaventano e promettono genocidi. Lo Squadrone carica ancora, c’è qualcosa di molto bello ma anche terribile nel coraggio che non conosce paura. Le dinamiche sono confuse. I vincitori sono i vinti. Il capitano Abba, per favorire l’attacco, si muove senza cavallo in direzione frontale. Ha il tempo di urlare il suo amore per la patria e per la vita. Punta contro i russi l’arma sfoderata, mentre viene colpito e ucciso da un fuoco di Pulemet-Maxim e pistole d’ordinanza.
Sopraggiunge il Terzo Squadrone, condotto dal capitano Marchio. Il maggiore Litta Modigliani, giunto a rinforzare l’attacco al comando del 2° Gruppo Squadroni, chiama la carica urlando con veemenza il suo coraggio e la sua paura. I cavalli galoppano lanciati da un gruppo di valorosi che sfoderano le sciabole nel tentativo di spezzare la resistenza del nemico. Qualcuno ricorda gli addestramenti, le tante ore impiegate a simulare lo scontro e a diventare scaltri, diventare pronti, diventare capaci di gestire l’emergenza, specie quand’è sopravvivenza. E poi saper convivere con l’angoscia, quando si fa la guerra, e saper patteggiare con la morte, e chiederle istanza, e saper convivere con la desolazione, sapere che ci vuole anima, cuore, il pelo sullo stomaco, qualcosa che assomigli alla fortuna, intesa come buona sorte, ma pure al valore. Qualcuno ricorda anche i nomi delle persone che lascia, la mamma, la nonna, la fidanzata che aspetta a casa lettere dal fronte. Le truppe sono in corsa, e cosi che infuria la battaglia. Si alzano polvere e sangue, e le urla di dolore e incitamento che squarciano la luce del mattino. Lassù il sole è un fuoco luminoso che non scalda.
I russi rispondono come sanno fare, e con armi moderne sanno far male. Sono sorpresi e ricorrono all’artiglieria pesante. Con le blindo cingolate travolgono sia molti soldati italiani che molte carcasse dei loro fedeli animali, dimenticandosi del codice d’onore e del rispetto. Le pallottole corrono veloci, piu dei cavalli di razza. Fendono l’aria e trapassano i corpi dei valorosi, che combattono intrepidi sfidando la sorte e la supremazia del più forte. Se la storia fosse pietosa e se la storia fosse umana, ogni guerra finirebbe presto, in stallo o in pace, o riscriverebbe almeno qualche pagina di cronaca leggendaria. Senza feriti, senza caduti, liquiderebbe forse la campagna di Russia con una stretta di mano tra le parti che sancisca un nuovo accordo, condiviso, accettato, che si voglia o no, anche imposto. Con l’implicazione di molta più sottomissione – che pure ha un prezzo – ma anche meno sacrificio ripartito. Però la storia è stata scritta, e allora adesso la steppa russa, in quest’alba di agosto di metà secolo scorso, è un meridiano di polvere e sangue, di vite spezzate e di promesse infrante.
Ma c’è comunque pure un valore tangibile, e concreto, e vivo. E a vederlo bene c’è traccia di tutto: spavalderia, virtù, ardore, ma anche impeto, furore. Ci sono le ferite, c’è la commozione, la lealtà, ci
sono i gesti di tanti ragazzi strappati alle terre del Tavoliere, del Carso, della pianura del Po. Ci sono i loro lampi di incoscienza, negli occhi, i loro abbagli, le loro sfide impavide agli anni a venire, le pagine di coraggio e di storia d’Italia che hanno scritto, affascinanti – non possiamo che dire – e poi
qualche bagliore, qualche parvenza – a ben guardare – di lieto fine.
Alle nove e trenta l’ostilita cessava. Nessun vinto e nessun vincitore. Il campo di battaglia di Izbušenskij, Russia, presso un’ansa del fiume Don, contava decine di cavalli senza vita, i sovietici decimati e i nostri eroici cavalieri a terra, morti ammazzati.
Molti erano uomini veri. I nostri lo erano tutti, capaci di sfidare i tempi e la logica dei benpensanti con un centinaio di cavalli lanciati al galoppo, contro le macchine blindate, mostruose, cingolate, degli avversari. Io li chiamo per nome e li venero e voglio essere come loro. Ernesto era un pittore, Salvatore il figlio di un famoso scrittore. Massimo amava la poesia, i funghi porcini, i film della Belle Epoque. Alberto studiava fotografia. Sandro turbava il cuore delle donne. Giulio aveva occhi da sognatore. Pino suonava il violino. Silvano il contrabbasso. Nando era un atleta di livello, con un talento sopraffino. Marco sapeva fischiare con i fili d’erba. Adamo cantare con voce strumentale.
Pietro temeva la guerra. Aldo imparò al fronte l’arte pratica della sopravvivenza. Vincenzo mangiava piano, come se ogni boccone gli fosse indigesto. Mario credeva nell’amicizia. Vittorio nella lealtà. Luigi nel potere delle parole. Paolo confidava negli abbracci. Edoardo negli attimi. Carlo rispettava gli altri.
Ma beato il paese che non abbia bisogni di eroi.
Perchè capita che si perda. Battaglie fratricide, ideali, spensieratezza. Alle volte anche la vita.
Andrea Serafini