Maurizio le parla per la prima volta nell’atrio del reparto dell’ospedale, subito dopo la fine dell’orario di visita, gestito rigidamente dalle suore infermiere. Per due giorni ha notato quella ragazzina, avvolta nella sua vestaglia lunga e rosa, ogni pomeriggio, dal primo all’ultimo minuto del tempo per le visite, in compagnia dei nonni e della mamma, presumibilmente.
Maschi e femmine hanno le stanze in corridoi separati, opposti, solo l’atrio è territorio comune. L’ospedale ha il dono di annullare molti pudori: a lui non piace farsi vedere in pigiama, nudo piuttosto, in tuta, ma il pigiama ha qualcosa di inadeguato; di sicuro anche lei non permette solitamente di farsi sorprendere in copri camicia da notte, rosa per giunta. Ma in ospedale si hanno altri problemi più seri, che oscurano i pigiami.
Maurizio ha bisogno di avere una conversazione normale, si sente quasi esplodere se non parla con qualcuno di diverso dal personale ospedaliero, ma nel reparto di neurologia i pazienti o sono anziani o stanno molto male. La ragazzina rappresenta una luce inaspettata e fresca, deve assolutamente avvicinarla.
Lei ha accompagnato i parenti alla porta delle scale, controllata da una delle suore guardiane delle visite. Torna a sedersi su una delle sedie appoggiate al muro, in quello spazio comune e triste, come il resto del piano, grigio e azzurro, tutto grigio e azzurro, dal soffitto alle pareti al pavimento, persino le finestre sembrano dello stesso colore. Maurizio si avvicina con decisione e naturalezza, almeno apparente. Si siede accanto e le dice: “Ciao.”
Lei è stupita, ma risponde rapida: “Ciao. Ti ho visto in questi giorni, alloggi anche tu al piano, a quanto pare…”
“E-ssì. Erano i tuoi nonni poco fa?”
“E-ssì. E mia madre. Da te non è venuto nessuno?”
“E-nnò. Resterai qui dentro ancora a lungo?”
“E-nnò.”
Scoppiano a ridere entrambi. È liberatorio, per tutto: per l’imbarazzo della conoscenza, per i pigiami, per il grigio e l’azzurro dell’ospedale.
Intanto la ragazzina nota che Maurizio ha la testa, un braccio e un piede fasciati, una mano è aggrappata al palo con le rotelle della flebo. Non può non chiedersi che cosa gli sia accaduto. Non può non chiederglielo: “Che cosa ci fai qui? Cioè, che cosa ti è successo al braccio, alla gamba, alla testa…”
“Sono caduto.”
Lei lo guarda come si guarda il personaggio di una telenovela. Lui se ne accorge e prosegue: “Sono caduto perché c’è qualcosa che non va nella mia testa e allora a volte cado senza una ragione particolare. Un misto del perdere l’equilibrio e annebbiarsi la vista.”
A lei questo giovane uomo sembra di una dolcezza infinita, le ricorda un grosso orso di peluche un po’ spelacchiato che ha nella sua stanza. D’impulso lo abbraccerebbe, gli accarezzerebbe quella testa che ha qualcosa che non va. Ovviamente si trattiene, ma qualcosa passa nel chiaro dei suoi occhi e Maurizio coglie quel qualcosa.
“Comunque, mi chiamo Maurizio.” E le tende la mano sinistra, quella senza bende.
“Silvia.” E stringe la sua mano, con quel suo modo pieno e deciso.
Maurizio viene investito da un inspiegabile senso di serenità, come non gli capitava da anni. Pensa: “Possibile che una ragazzina, che avrà quindici o sedici anni, riesca ad infondermi questo senso di fiducia, di sicurezza?” la risposta, in realtà, non è importante.
“Non sembra che tu stia male o hai qualcosa di misterioso?” Sorride, Maurizio, in quel modo dolce che la sta catturando morbidamente, proprio come il regalo di peluche che si aspetta da bambini da tanto tempo.
“Entrambi. Non sto male, non più. Ho avuto uno strano tipo di dolore che mi ha per qualche ora paralizzato una spalla e in parte la cassa toracica, mi sembrava di non riuscire a respirare. I medici hanno voluto approfondire le cause. Pare si tratti di un particolare virus che colpisce i nervi.”
“La mia verità è che quel qualcosa alla testa è colpa del fatto che non mi sono comportato bene, per anni.”
Silvia lo guarda, interrogativa. Ma comincia la ronda di Suor Camilla. Il capo, la più inflessibile e dura delle aguzzine da campo ospedaliero. Entrambi si alzano obbedienti a un suo sguardo e si dirigono ognuno verso la propria stanza. “Ci vediamo qui, dopo il giro delle medicine?” Chiede Maurizio.
“Certamente. A dopo, tra il giro medicine e il giro camomilla!”
La ragazzina non riesce a smettere di pensare a Maurizio. Non è attrazione, non proprio. È troppo grande o forse è troppo orso di peluche, tuttavia non vede l’ora di tornare a parlargli.
Quando Maurizio esce dal corridoio maschile, la trova già seduta nell’atrio.
“Mi scusi, signorina, aspetta qualcuno?” La frase è banale, ma detta con quella sua voce un po’ strascicata la fa sorridere. Risponde così, con un sorriso eloquente e lui si siede.
“Dove eravamo rimasti?” È Maurizio che ha rotto gli argini, ha un bisogno fisico di parlare con lei, di raccontarle tutto. Silvia continua a guardarlo, accogliente. “Mi sono drogato per tanto tempo e un po’ lo faccio ancora. Per questo ora soffro di micro emorragie cerebrali, così le chiamano i dottori. È tutta colpa mia, non voglio lamentarmi e non so nemmeno se io voglia stare meglio, guarire. Sai dove mi manderanno, appena starò meglio? In un posto un po’ clinica, un po’ prigione. Mi fa paura, ma è tutta colpa mia, non voglio e non posso lamentarmi.”
Per lei è uno squarcio di tuono. Passano veloci e confusi mille pensieri nella sua mente. Non riesce a sovrapporre l’immagine che ha di un drogato a quella di Maurizio. Non è possibile. Quella che ha davanti, invece, è entrambe le cose: una persona dolcissima e una persona drogata. Impara questa lezione con una sberla, ma è una che i colpi li sa incassare.
Non vuole mostrarsi scossa, vuole continuare ad accoglierlo, a capire ciò che non conosce, che non le appartiene.
“Non hai qualcuno che ti possa stare vicino?”
“Avevo una ragazza, ma non si è mai fatta vedere da quando sono in ospedale. E forse è anche meglio così, non sono sicuro che ora la riconoscerei…”
Silvia pensa di non conoscere affatto il mondo della droga, fatica a seguirlo.
Lui prosegue: “C’è mia madre, mi è rimasta solo lei, ma abita lontano da qui ed ha difficoltà a raggiungermi, non guida nemmeno…la clinica, poi, sarà vicino alla sua casa e allora là verrà a trovarmi.”
La ragazzina ora lo vede soprattutto come un orso solo e non è mai accaduto che abbia lasciato uno dei suoi peluche soli, specialmente quelli più dimessi. La sua regola automatica è: meno è bello e lucente un peluche e meno verrà guardato, meno sarà trattato bene dal resto del mondo, quindi lei lo deve privilegiare. La sua è una missione compensatrice, tra lei e il resto del mondo. E poi la dolcezza di Maurizio la mette a suo agio, la fa stare bene.
Si guardano in silenzio. È uno di quei momenti in cui le parole sono di troppo. Sentono i passi di Suor Camilla. È ora di andare a letto. Si alzano.
“Ma quella lavora sempre?” Sorride Maurizio mentre le prende per un istante la mano in gesto di affettuoso saluto.
La ragazzina, una volta arrivata al suo letto, si ritrova a pensare: “Proprio io, sono diventata amica di un drogato. Beh, dai, un quasi ex drogato!”
Le liturgie ospedaliere arrivano inesorabili, fino al giorno successivo in cui Maurizio e la ragazzina ritagliano per stare insieme tutti i momenti suorcamillamente possibili. Parlano e stanno in silenzio, insieme.
La mattina ancora seguente, Silvia viene dimessa. Trova comunque il modo di dirlo a Maurizio, che si riempie di tristezza. Terribile da guardare per lei, perché è una tristezza rassegnata.
“Non fare quella faccia, guarda che ti vengo a trovare! Tra un paio di giorni, ok?”
Maurizio fa sì con la testa, le dice di non preoccuparsi e dentro si incrina, pensa che non tornerà.
La ragazzina è tranquilla, perché, invece, sa che tornerà. Chi o che cosa dovrebbe impedirglielo?
Infatti, come aveva previsto, il terzo giorno in cui è tornata a casa, puntualissima si presenta all’ora delle visite del pomeriggio. È arrivata in autobus, vestita da grande, cioè, vestita, sembra più grande.
Parlano e non parlano come quando erano entrambi in ospedale.
Arriva Suor Camilla. Silvia saluta e se ne va. “Ci vediamo tra due o tre giorni.” Maurizio continua a preferire di non crederci del tutto.
Invece la ragazzina torna, ancora. Parlano di più, anche perché hanno a disposizione solo un’ora prima della comparsa di Suor Camilla. Silvia pensa: “Come può una persona avere un viso così duro e inespressivo? Come fa ad essere di marmo quella donna?” Il bianco dei vestiti, certamente, non migliora le sue emanazioni.
Questa volta la ragazzina trova Maurizio agitato, possono scendere in giardino perché non ha più la flebo. “Mi trasferiscono alla clinica di cui ti ho parlato, dopodomani. Almeno rivedrò mia madre. È molto preoccupata per me.”
“Ci credo che sia preoccupata, lo sarà ancora di più non avendoti potuto vedere. Perché sei così agitato, allora? È una buona notizia se ti dimettono, significa che stai meglio…”
“Da una parte sto meglio, ma dall’altra si stanno manifestando tutte le sofferenze di quando si smette di drogarsi.”
Lei non capisce, non può capire. Prova a intuire e accetta che sia così.
“Che cosa intendi di preciso?” Trova il coraggio di chiedergli. Si sente in difetto per non sapere nulla sugli effetti della droga, un’ignorante. Un po’ si imbarazza per questo.
“La nausea, l’irrequietezza, i sudori freddi, a volte i tremori…e un infinito senso di solitudine, che non dipende dagli altri, è una questione con te stesso…meglio di così non riesco a spiegartelo.”
“Guarda che lo hai spiegato bene.” Gli prende le mani.
Maurizio prosegue: “Prima di queste emorragie fumavo le sigarette, che mi aiutavano a stare senza la droga, ma ora non posso più, i medici dicono che aumenterebbero la frequenza delle crisi cardiocircolatorie.” Le sue mani stanno sudando e si capisce che non riesce a stare fermo. Si alzano dalla panchina di legno e camminano, senza dirselo apertamente, capiscono.
“Che cosa posso fare per aiutarti?” chiede lei come una domanda necessaria.
“Niente.”
“Qualcosa si può sempre fare.”
“Non sempre, non con uno come me.”
“E dai!”
“Sei tornata, è già molto.”
“Quello non c’entra, vengo a trovarti perché mi fa piacere stare con te.”
I pensieri di Maurizio fanno rumore.
“Una cosa ci sarebbe, ma non credo di potertela chiedere.”
“Chiedimi tutto, poi vediamo.” Sorride lei.
“Sai che cosa potrebbe davvero sollevarmi un po’, farmi sentire più rilassato, più tranquillo?” La guarda, ma non aspetta una vera risposta e prosegue: “Fumare dell’erba, bello sdraiato su un prato, sotto un albero, magari.”
Ora è lei a guardare lui.
“Non guardarmi così, non ha controindicazioni e ne fumerei giusto il poco utile a stendere i nervi, non mi interessa lo sballo o fare chissà che, vorrei solo sdraiarmi e sentirmi rilassato.”
Non camminano più. Non parlano più.
Silvia guarda per terra: “Dici sul serio? Davvero ti serve?”
“Mi sarebbe utile, sì, per sentirmi un po’ meglio, in questo momento difficile.”
“Ok, allora te ne procuro un po’.”
“Tu?? E dove pensi di andare a prenderla, in un supermercato?” A Maurizio viene sinceramente da sorridere.
La ragazzina si rinchiude come un riccio in un broncio stizzito. “Chiedo agli amici degli amici. La vuoi o no?”
“Beh, sì.”
“Allora te la porto.”
“Mi trasferiscono dopodomani!”
“Infatti ci vediamo domani.”
Non si volta, Silvia, si dirige verso l’uscita con qualche minuto di anticipo.
Tutta la sua sicurezza crolla una volta sull’autobus. Panico. Non pensa più di farcela.
Arrivata nel suo quartiere riprende le redini. Sa benissimo chi la può aiutare. Uno della sua compagnia, che ormai frequenta sempre meno.
Lo cerca.
Lo trova.
Gli consegna diecimila lire. “Davvero bastano?”
“Sì, certo, per una dose, stai tranquilla.”
“Non dirai in giro che ti ho chiesto di procurarmela, vero?”
“No, ma che cosa devi farne? So che non è per te…”
“È per un amico in difficoltà. Ti basta?”
“Eccome. Ci vediamo qui, domani verso le tre del pomeriggio.” Sparisce come solo alcune persone sanno fare, come se fosse stata la proiezione di un film.
Ultimo giorno all’ospedale. La ragazzina arriva puntuale per l’orario delle visite. Chiede a Maurizio di scendere di nuovo in giardino. Gli consegna il pacchetto. Lui sgrana gli occhi e la ringrazia in silenzio. Lei gli dà un bacio su una guancia e gli chiede: “Come hai detto che si chiama la clinica dove andrai?” Scrive su un foglietto tutti i dati.
“Ma è lontano da qui…”
“Quaranta minuti di treno. Ora vado, ti lascio a…rilassarti, ci vediamo alla clinica.”
Maurizio si sente di nuovo come la prima volta, vicino a lei, protetto. La vede andar via e di nuovo pensa che non la rivedrà mai e che mai dimenticherà la sua vicinanza così disinteressata, insomma, una vera vicinanza.
Si sbaglia, Maurizio, perché la ragazzina arriverà alla clinica per due volte, col suo treno, la sua giovinezza, il suo sguardo che vede dolcezza in lui.
Silvia prenderà il treno alla ricerca di Maurizio, troverà la clinica. La prima volta incontrerà anche la madre, constatando quanto sia gentile e premurosa. La seconda volta troverà insieme a Maurizio un suo amico, li vedrà parlare complici e sereni. Senza deciderlo apertamente, capirà di aver concluso un percorso, perché ognuno ha bisogno di seguire la sua strada.
Simona Bogani