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Morto e risorto: i miracoli della strada (Kietty Bassi)

Quando ci si trasferisce all’estero, il tessuto sociale e le relazioni umane diventano una specie di tabula rasa su cui andare a riscrivere tutti i propri riferimenti: il panettiere, il macellaio, il postino…tutte le facce amiche vanno ri-collezionate.
Fin dall’inizio la costante che ha segnato il principio della mia giornata lavorativa è stata il “buongiorno” di S., 39 anni, trasferitosi dal litorale rumeno nella capitale in cerca di fortuna. Il cappello perennemente in testa lascia intravedere la capigliatura brizzolata ed il viso paonazzo, veste un paio di pantaloni sportivi con varie sfumature di grigio ai limiti dell’usura, e l’immancabile felpa verde. Vive in strada, a due passi dal mio ufficio, e tutti i giorni percorre in lungo e in largo il vicinato, alla ricerca di qualcosa o qualcuno. Guadagna il pane facendo le pulizie nella scala di uno dei palazzi del quartiere e bazzica spesso con due compagni di sventura, C., un giovane estroverso dagli occhi azzurri, ed un uomo con un passeggino.
In poco tempo è diventato la mia prima faccia amica, sempre pronto a salvarmi con il suo accendino quando mi vede temporeggiare con la sigaretta in mano o a commentare le strane dinamiche di quartiere: la durata del cantiere, il nido dei passeri, il comportamento di uno o i difetti dell’altro. «Dovreste ripararlo, per colpa di quel beep non riesco a dormire» mi ripete incessantemente riferendosi all’allarme dell’ufficio. Da tempo si è inceppato riproducendo ogni tot secondi un piccolo rumore, quasi impercettibile per noi, ma abbastanza fastidioso per chi cerca ogni notte di abbandonarsi alle braccia di Morfeo con la schiena sull’asfalto.
Sono passati due anni dal nostro primo incontro, S. non è mai stato un tipo particolarmente in carne, ma nell’ultimo periodo ha subito un dimagrimento fuori dal normale, la sua voglia di chiacchierare è notevolmente diminuita e la sua tosse persistente non lascia spazio a pensieri troppo incoraggianti. Più che camminare sembra che si trascini da una parte all’altra: in cerca di una seduta vaga dalla panchina, quando è libera, alla cassetta di frutta rovesciata qui all’angolo.
Al rientro dalle ferie non ho trovato S. a darmi il buongiorno e neanche nei giorni successivi. Inizialmente mi sembrava tutto in ordine, ma col passare dei giorni ho iniziato a pensare che potesse essere successo qualcosa di grave. In allerta, ho iniziato a tendere l’orecchio alle voci di quartiere per cercare di ricostruire l’accaduto «aveva solo 39 anni», «non era come gli altri che bevono continuamente», «aveva una tubercolosi ormai incurabile».
Dopo circa una settimana ho incontrato C., atteggiamento spavaldo e sempre pronto a chiedere una sigaretta. Come dicevo fa parte della stessa cricca di S., a volte dormono insieme, altre si rifugia da compagni più fortunati. Preso coraggio gli ho chiesto se fosse successo qualcosa ad S., ma mi ha liquidato in due parole «era in ospedale e lì è morto».
Ho passato una giornata intera in lacrime, pensando che avrei potuto aiutarlo o per lo meno che avrei potuto passare con lui del tempo di maggiore qualità, chiedendo dettagli sulla sua vita, sulla sua salute e sulla sua storia. Ma dopo ventiquattro ore, rassegnata, ho pensato che l’unica cosa che potessi fare per omaggiare la nostra amicizia fosse scrivere questa storia.
Tuttavia come nei migliori film, quando sei lì che hai dei rimorsi sinceri, capita che la vita ti premi con una seconda possibilità. Mentre ero qui davanti al monitor a scrivere queste righe, ho sentito un gruppo di signore gridare «a înviat» che tradotto dal rumeno significa «è risorto!». Nulla di strano: sul momento non sono riuscita a dare troppa importanza a quel vociare, vista l’abitudine degli Ortodossi di ripetere questa frase – ogni giorno – per ben quaranta giorni dopo Pasqua. Quasi una forma di saluto, tipica del periodo pre-Ascensione, per celebrare la resurrezione di Cristo. Ma dopo qualche secondo mi sono resa conto di essere nel pieno del mese di luglio e che quella frase doveva essere giustificata da un evento sicuramente straordinario.
Spostando le tapparelle dell’ufficio ho visto S., in carne ed ossa, ma sul momento lo stupore mi ha portato ad avere una reazione piuttosto superficiale: ho bussato dalla finestra del mio ufficio per attirare la sua attenzione e alle parole «ciao mia cara!» provenienti proprio dalla sua bocca ho richiuso le tapparelle.
Inconsciamente ci ho messo qualche giorno ad elaborare la sua perdita, ma ancora di più la sua resurrezione. Per questo è passato un po’ di tempo prima di riuscire, come tutti gli altri, ad andare in pellegrinaggio verso la cassetta della frutta su cui siede abitualmente a chiedere spiegazioni.
È stato a tratti tragicomico.
A causa dei vari, gravi, problemi di salute che lo attanagliano, S. dice di essere stato ricoverato diversi giorni in ospedale. Nel frattempo C., dandolo per spacciato o forse semplicemente per regalarsi la possibilità di cambiar vita, è andato di negoziante in negoziante, di signora in signora, di condominio in condominio a chiedere qualche soldo per fare una colletta ed organizzare un degno funerale ad S. e, grazie alla generosità del quartiere, C. è riuscito a fuggire con un discreto bottino.
S. fortunatamente ce l’ha fatta, ha qualche grammo in più e delle pastiglie da prendere tutti i giorni per nove mesi conservate come reliquie in un sacchetto del pane. Non porta rancore, si chiede solo se, quando davvero arriverà il suo momento, qualcuno avrà ancora voglia di organizzargli un funerale dignitoso e comprare una bella corona di fiori. Lo dice ridendo, mentre la malattia gli segna ogni giorno un po’ più il volto. C. non si è mai più visto. C’è chi gli ha dichiarato guerra e chi lo immagina su qualche spiaggia. C’è chi dice che abbia festeggiato qualche giorno con del buon vino e ora dorma vicino ad una Chiesa in centro città.
Ma non siamo qua per dire quale sia la verità, prendere le parti di qualcuno o giudicare. Si tratta solo di un veloce sguardo sulla vita di una persona ai margini, per molti invisibile e lontana anni luce dalle nostre giornate frenetiche.
La strada è un luogo un po’folle, un po’disperato, un po’terra di miracoli…piena di voci, di richieste di aiuto e di attenzione che meritano di essere ascoltate e a volte anche narrate. S. può essere una persona che ha perso il lavoro e non è riuscito a pagare l’affitto, può essere una persona dimenticata dai familiari o un ex bambino di strada, cresciuto in orfanotrofio e ritrovatosi in strada alla maggior età. Poco importa, per me S. è la mia preziosa faccia amica.

Kietty Bassi

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