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Nero come tutti i colori dell’arcobaleno (Calogero Alberto Petix)

Ti chiedo perdono Signore, se ho fatto del Male con la mia omeopatia. Come un veleno che spossa ogni fibra del corpo ma non uccide, ne ho assunto ogni giorno piccoli sorsi, fino a diventarne immune. Scorre tra le mie vene e se, un tempo, trasformava il mio sangue in quello incandescente del vulcano Nabro, oggi incontra soltanto rare e fiacche incrostazioni di coscienza al suo incedere impetuoso come la piena di un fiume. A volte vorrei chiederti soltanto di far tacere quella voce che, come un fanciullo sotto un cumulo di macerie, lancia ancora il suo grido disperato di giustizia. Si è ridotta ad un tenue rantolio ma è la pericolosa goccia che può ancora scavare la roccia della mia atarassia. Vorrei che mi aiutassi a spegnere per sempre quel tizzone ardente che ancora brucia sotto cumuli di cenere e che non aspetta altro che un alito di umanità per riaccendersi, la speranza. Oggi né l’una né l’altra sono venuti a farmi visita, a tormentarmi.
Giaccio impassibile nel ventre tetro di un barcone che forse mi porterà a morte certa o ad un nuovo inizio, ma che importa ormai? Rinasco. Abbandono il vecchio corpo del guerriero della luce che mi ha donato mia madre partorendomi e mi rivesto di panni nuovi, sudici come l’aria fetida che si respira su questa bara galleggiante. I miei compagni cantano, una nenia monotona e infelice, si leva come il muggito del vento tra le canne. Io resto zitto e chiudo gli occhi. Sento la voce di mia madre che mi sussurra dolcemente nelle orecchie: «Andrà tutto bene» prima che degli uomini di Aferwerki la carichino su un furgone privandomi per sempre della vista meravigliosa del suo sorriso di latte. L’odore acre di gasolio che trasuda dal barcone è lo stesso che mi riempì le narici quel giorno, quando mi aggrappai con le unghia e con i denti al mezzo che trasportava mia madre, fino a scorticarmi le mani.
Sento una donna ansimare e piangere, il suo bimbo respira ancora più affannosamente, maledice il marito perché non è riuscito a procurarle i biglietti di “prima classe”, quelli sul ponte della nave, relegando la sua famiglia nella spaventosa sala macchine. Lui non dice nulla, l’abbraccia e le sorride, con quello sguardo vuole dirle soltanto che «andrà tutto bene». Maledetta speranza, demone mascherato da angelo salvifico. Il viaggio è appena iniziato ma l’ossigeno già scarseggia. Siamo ammassati come un carico di bestiame. Gli scafisti libici hanno fatto un lavoro perfetto, incastrandoci in uno spazio che non sembrava poter accogliere metà della metà dei corpi che adesso vi si aggrovigliano, nella caricatura deformata di un’orgia oscena.
Sul fondo della sala un ragazzo ancora imberbe, col fisico asciutto e muscoloso di un maratoneta, sembra un arco teso sul punto di scagliare una freccia. Ha gli occhi iniettati di sangue e digrigna i denti come una iena all’attacco e ogni fibra del suo corpo sembra pervasa da scosse telluriche inarrestabili. Se qualcuno di noi avesse un nakfa da giocare scommetterebbe senz’altro che il primo a cedere sarà lui. Uno scossone del barcone causato dal primo di una lunga serie di cavalloni è come l’ultima bollicina cha fa saltare il tappo di champagne. Il ragazzo comincia ad urlare in tigrino tutta la sua rabbia, vuole proporsi a leader di una sommossa contro gli scafisti. Dalla botola della sale macchine si affaccia un ceffo neandertaliano. Ha un viso squadrato, fronte e mento sporgenti, il viso coperto da un pelo ispido ed irsuto e lo sguardo di una fiera affamata. Non posso dimenticare il volto di quell’uomo che a bordo è noto semplicemente come “il libico”. Fu uno dei miei più feroci carcerieri nella lunga traversata del Sahara. Avevo già pagato profumatamente la traversata fino a Tripoli ma il nostro camion, stracarico di uomini e donne, fu arrestato da uomini armati all’altezza di  Sebha. Ci ordinarono di scendere, minacciandoci con i fucili e ci condussero in un piccolo casolare buio e umido dove ci lasciarono senza cibo e acqua per un giorno intero. Il giorno dopo un uomo tarchiato venne a portarci delle modeste porzioni di riso, annacquate in un liquido torbido. Ci urlava in arabo e, anche se non comprendevano il significato esatto delle sue parole, ne afferravamo il senso, voleva dei soldi, tanti soldi per farci proseguire il viaggio verso Tripoli. Consumato il piccolo pasto ci fece intendere che saremmo dovuti essere noi stessi a pagarne profumatamente il prezzo, con qualsiasi cosa avessimo indosso. Per questo venimmo perquisiti uno ad uno e le indagini si facevano più “accurate” e triviali sulle donne, insistendo in particolare sulle parti intime fino a rasentare, più o meno velatamente, una vera e propria violenza sessuale. Due dei miei compagni di viaggio vennero trovati privi di qualsiasi oggetto di valore, fu allora che fece la sua prima apparizione Faisal Al Alwany, quello che sul nostro traghetto per Lampedusa era stato ribattezzato più brevemente come “il libico”. Ci disse in inglese che era di buon umore e che voleva fare una festa ed accese un vecchio stereo a batterie sintonizzandolo sua una radio di musica popolare araba. Cominciò dapprima a sparare dei colpi per aria poi puntò il fucile contro i due ragazzi, privi dell’obolo per Caronte, e cominciò a sparare ai loro piedi urlando incessantemente “Dance, dance”, ridendo diabolicamente. I ragazzi scansavano i colpi saltando, con il risultato di inscenare davvero un’atroce danza della morte, fintanto che uno dei due prese la via della fuga. Faisal girò il fucile dietro la schiena e prese velocemente la mira, poi lo freddò alle spalle. Rientrammo muti e sconvolti nella nostra prigione. Non credevo che nessuno potesse aver voglia di dire alcunché dopo ciò che era successo ma un uomo sulla quarantina mi si avvicinò e mi afferrò per la camicia, voleva qualcuno con cui condividere l’orrore che gli scorreva negli occhi:
«Hai visto cos’hanno fatto amico! La nostra vita vale meno di un insulso monile. So io cosa ci aspetta adesso! Rimarremo in questa cella per mesi dimenticando il colore del cielo, i più fortunati tra noi saranno mandati in campi di lavoro dove saranno ridotti in schiavitù, ci faranno sputare l’anima, chiederanno i modesti risparmi delle nostre famiglie e solo quando ci avranno spremuto come limoni forse ci lasceranno liberi!» -, tremava nel corpo e nella voce e il suo racconto era spesso interrotto da un singhiozzare angosciato.
«Ce la faremo vedrai» – lo rassicurai meccanicamente, ma la mia voce era atona e priva di convinzione. L’uomo prese a piangere in silenzio in un cantuccio e non aggiunse altro.
In fondo, pensai, era stato io a scegliere quella sorte. Avrei potuto essere un carnefice dell’esercito eritreo. Ero forte e prestante, con una mira infallibile, veloce come una saetta ed ero diventato prestissimo un soldato scelto. La mia carriera era spianata, dovevo “soltanto” far tacere quella subdola voce interiore che chiamiamo coscienza e trasformarmi in una macchina di morte, un violentatore, un torturatore. Il mio battesimo del fuoco non era tardato ad arrivare quando mi fu proposto di torturare con dei cavi elettrici un mio compagno d’armi che i superiori accusavano di codardia e diserzione. Era nell’esercito da quindici anni in coscrizione obbligatoria e aveva espresso il desiderio di tornare dalla sua famiglia per conoscere la sua piccola nipotina appena nata. Per il governo, desideri come quello non potevano essere espressi neppure nel profondo del proprio animo. Fu allora che decisi di scappare ed intraprendere questo burrascoso viaggio verso l’incerto. I miei occhi hanno conosciuto orrori che non potrei neppure raccontare, senza perdere quel brandello di anima che forse ancora mi rimane.
A bordo del barcone la precaria tregua tra scafisti e disperati è già stata interrotta. Sirak, è questo il nome del ragazzo che per primo ha accesso la miccia, implora Faisal: «Non riusciamo a respirare, moriremo tutti, ci sono bambini e malati qui sotto, abbiate la pietà di farci salire sul ponte, almeno a turno!». Il suo arabo è stentato ma comprensibile per l’uomo che, però, risponde in modo ben più eloquente, mettendolo a tacere con un colpo ben assestato del calcio del fucile sulla bocca del ragazzo. Sirak sputa sangue. Due madri stringono al petto i propri figli per proteggerli dall’orrore, ma i nostri bambini crescono in fretta, apprendono prestissimo di non avere il diritto di strillare.
La quiete è solo apparente perché i fumi mefitici dei motori sono come una droga che ottunde la mente o la porta all’eccitazione più estrema. Trascorrono dieci lunghi minuti in cui il tempo sembra sospeso. Nessuno osa profferire parola, la violenza a cui abbiamo assistito suscita in ciascuno di noi una catena inarrestabile di ricordi, immagini rimosse o ancora fin troppo vivide, scene di guerra, di paura, il Male in tutte le sue forme. Un altro uomo canuto e con gli occhi velati mi si avvicina e comincia a delirare: «Sai che nel posto dove stiamo andando vivono tutti in grandi ville con giardini deliziosi? Ciascuno sceglie il mestiere che più gli aggrada e se non ha più la forza per lavorare è lo Stato a provvedere ai suoi bisogni. Tutti sono eguali e liberi. Non mi credi? Ho letto tutto qui» mi dice, mostrando una doppia fila disordinata di radi denti ingialliti, mentre mi porge un libricino consunto. – La Costituzione Italiana – . Sorrido. Il libretto è in italiano ma ogni articolo è accompagnato da fitte note in tigrino dell’uomo e sottolineato con matitone rosse e blu. Un breve comma è talmente evidenziato dagli appassionati tratti delle matite dell’uomo da risultare quasi di difficile lettura
“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.”
Una donna schiacciata tra due fratelli più anziani ha una crisi convulsiva, sembra epilessia, non c’è neppure la possibilità di farla distendere a terra. I due fratelli cercano di farle un po’ di spazio sgomitando tra la folla, uno le afferra con sicurezza la lingua per evitare che possa morderla o soffocare. La voce solitaria di Sirak ora si trasforma nell’urlo rabbioso di cento anime che chiedono la salvezza dall’inferno. L’intervento di Faisal non è più sufficiente, scendono con lui cinque uomini armati. Sono ingombranti e un po’ impacciati anche perché, a differenza nostra, indossano i giubbotti salvagenti. Quando il primo di essi si sente aggredito comincia a sparare all’impazzata contro di noi. Cadono almeno tre dei nostri e il fondo del barcone si trasforma in un lago di sangue. Loro sono armati ma noi siamo in netta superiorità numerica, bastano alcuni secondi perché i cinque uomini vengano accerchiati, disarmati ed immobilizzati. Il controllo della nave ormai è nostro, ma abbiamo perso del tutto il lume della ragione. L’immagine che si presenterebbe ad un ipotetico spettatore è quella di una creatura mitologica con cento teste, braccia e gambe che decide di salire tutto d’un colpo sul ponte. È proprio allora che succede l’inevitabile. Lo sgangherato barcone perde il suo equilibrio precario rovesciandosi e facendoci piombare in acque gelide e profonde. È notte e non abbiamo null’altro a cui aggrapparci che il barcone stesso, la cui superficie non è affatto sufficiente per tutti. C’è chi si avvinghia ad altri sconosciuti quasi fossero delle zattere, chi cerca di mantenere la calma e conservare le forze, chi invece nuota ad ampie bracciate anche per cercare di non morire assiderato. Non abbiamo idea di quanto sia distante la riva, a dire il vero non siamo neppure certi di quale direzione seguire. Uno di noi, chissà come, ha con sé un fischietto di salvataggio, forse deve averlo preso dallo stesso barcone o strappato agli scafisti. Inizia a soffiare con tutto il fiato che ha in corpo, tre fischi brevi, tre fischi lunghi, ancora tre fischi brevi. Possiamo soltanto sperare che qualcuno incroci la nostra stessa rotta. Il giovane con il fischietto sembra avere un fiato inesauribile. Per oltre un’ora il silenzio della notte è squarciato dai segnali intermittenti di SOS, man mano però il fischio si fa meno frequente ed intenso fino a divenire un suono flebile. Il gruppo non è più compatto, qualcuno ha preso il largo, sperando di raggiungere la riva, qualcuno non ha resistito più di qualche minuto prima di farsi prendere dal panico ed affogare. Noi eritrei sappiamo correre come gazzelle ma non sempre abbiamo la stessa confidenza con il mare. I movimenti cominciano già a diventare più lenti ed impacciati mentre le nostre membra sono intorpidite dall’acqua gelida. Ho perso completamente il senso del tempo e penso che la mia ora sia vicina mentre vedo altri compagni scomparire, inghiottiti dal mare, un dio generoso quanto implacabile.
Perdo i sensi.
Tutti noi pensiamo di non poter ricordare il momento più traumatico della nostra vita, il momento, cioè, in cui veniamo violentemente strappati dal mondo ovattato e protetto dell’utero di nostra madre per venire alla luce. Il parto è doloroso per la gestante ma è ancora più terribile per il bambino il quale deve fin da subito avere un assaggio di quello che forse è il vero significato della vita: sopportare stoicamente la sofferenza. Immaginate però di poter rivivere per un attimo un’esperienza che vi consenta di riprovare tutte quelle sensazioni, lo schiacciamento provocato dalle contrazioni e dagli spazi ristretti, l’apporto di ossigeno che cala durante le contrazioni, la sensazione di morire; scoprireste, con immensa sorpresa, come me, che il ricordo della nascita possa essere rievocato in ogni più piccolo dettaglio, la nostra mente lo ha soltanto rimosso. Al risveglio, intirizzito e zuppo di un’acqua di mare che mi sembra avere lo stesso sapore del liquido amniotico, sono certo di essere morto. Ecco sì, evidentemente ogni rinascita, anche quella a “miglior vita”, dev’essere burrascosa e violenta. Il neonato “muore” nel parto per rinascere in questo mondo imperfetto, così come io adesso morivo nuovamente per rinascere a vita eterna. Di certo, però, non era così che avevo immaginato il paradiso. C’è una donna che mi sorride e continua a chiamarmi per nome, chissà come fa a saperlo! Ho indosso un sacco di plastica e tutto attorno ci sono uomini e donne che corrono e si danno un gran da fare per soccorrere altri uomini e donne che sembrano tornati da un viaggio nell’Ade. La mia convinzione di essere rinato o risorto comincia a vacillare ma all’orizzonte si stagliano nuove evidenze di un evento miracoloso. Se il primo volto che ho visto alla mia nascita è stato quello dell’ostetrica, sorridente e bonario come quello di questa donna che mi chiama per nome, il secondo e senza dubbio più importante volto che ho visto al momento del mio parto è stato quello di mia madre. Non so quale delle due immagini, che adesso si stanno formando nella mia mente, sia più incredibile, il ricordo infinitamente lontano eppure incredibilmente nitido del suo volto sfinito e consunto ma raggiante come un cielo d’estate, che mi fece capolino dal letto dell’ospedale di Asmara alla mia nascita o l’apparizione presente di una donna con le sue stesse identiche fattezze, con al collo una reflex, che mi sorride e mi viene incontro con le braccia spalancate. Quella è mia madre, non ho alcun dubbio, benché non la veda da quasi quindici anni, ed è bellissima, come il primo giorno che l’ho incontrata. Perdonatemi, devo correggermi, era così che immaginavo il mio paradiso!
Quando il buio più profondo è squarciato da un raggio di sole spesso rivela di celare dentro di sé tutti i colori dell’arcobaleno.

Calogero Alberto Petix

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