Le sorgenti sgorgano dalle radici della montagna in una vallata irta di macigni, dirupata, selvaggia, e coperta da una spessa coltre di querce e profumata dall’esplosione delle ginestre. Le polle d’acqua scaturiscono improvvisamente disposte a ferro di cavallo e spezzano il bosco che le nasconde. Le acque del Volturno appena nato sono limpide e purissime, si lanciano in salti, spume, gorghi, spruzzi, si frangono in rivoli e pulviscoli iridescenti al sole e formano arcobaleni nel cielo.
La casa sulla riva delle sorgenti non si vede né dal cielo né da terra: è nascosta dalle fronde delle querce e spunta all’improvviso dopo una curva del sentiero. Vincenzo è arrivato a piedi. È un uomo magro, la pelle olivastra del suo volto affilato come un rasoio è solcata da profonde rughe, nonostante lui non sia anziano. I suoi occhi neri saettano tra i cespugli: ha paura. La sua casetta è arredata con vecchi mobili ed elettrodomestici scompagnati, e lui ora se ne sta seduto con la schiena appoggiata alla sedia di paglia, fumando con rabbia le sue puzzolenti sigarette che accende una con il mozzicone dell’altra. Ora è arrivato anche Umberto, è entrato senza bussare e si è seduto senza salutare, e adesso guarda Vincenzo dall’altro capo del tavolo. Umberto era il componente più estroverso di quella compagnia che fino a qualche anno prima si riuniva nella casetta per bere un bicchiere di vino e arrostire salsicce. Erano cinque ragazzi spensierati, prima di quella notte d’estate, e nessuno tra loro quel giorno era uscito di casa con l’idea di fare qualcosa di diverso dalla solita partita a carte, magari in compagnia di qualche bottiglia di birra bevuta direttamente dal collo della bottiglia.
Lucio Sandon
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