Teddy è un fottuto negro.
Teddy è un fottuto negro che abita da quattro anni nel mio stesso condominio, esattamente a fianco del mio appartamento e dove finisce la camera da letto di mio figlio, a pochi metri inizia quella della figlia di Teddy.
Teddy è un fottuto negro.
Teddy è un fottuto negro che mi ha cambiato la vita.
Lisa quel giorno era nel giardino al pianterreno che io e mia moglie condividevamo da quattro anni con Teddy.
Avevo sfiorato il divorzio da mia moglie pur di non far sì che mio figlio giocasse con Lisa in quel pezzo di prato ma mia moglie è stata irremovibile.
«Se fai così schifo da non permettere ad Andrea di giocare in giardino perché potrebbe incontrare quella ragazzina di colore, puoi fare le valigie e andartene oggi stesso!»
Contro ogni mio volere e ambizione, Lisa e Andrea divennero presto migliori amici.
Non mi spiegavo come mio figlio potesse voler aver a che fare con una bambina poco più grande di lui che intrecciava tutto il giorno i suoi capelli crespi e scuri in treccine colorate e che canticchiava canzoni in una lingua incomprensibile che lei padroneggiava come naturale.
Come potesse piacergli la scelta degli abiti che il padre le imponeva, tutti così sfacciatamente colorati, decorati e sgargianti e come potesse essere interessato a che cosa Lisa avrebbe cucinato per lei e il padre la sera.
Pietanze i cui sapori arrivavano fino al nostro appartamento tanto da costringermi a barricarmi per ore in casa la sera.
Quando arrivava una folata di uno di questi sapori, Andrea correva alla finestra, spalancava la bocca e il naso e tornava sorridendo a tavola.
«Cous-cous. Lisa oggi mi ha detto che l’avrebbe cucinato».
Io correvo a chiudere finestre e persiane.
Ad Andrea piacevano tutte le usanze, le smorfie, i colori e i sapori di Lisa.
A mio figlio piaceva ciò che io per anni ho allontanato con tutte le mie forze.
Tutta quella diversità non mi piaceva.
Ora so.
Era paura.
Raccolti sotto l’albero di faggio del giardino, Lisa e Andrea trascorrevano pomeriggi interi a confrontarsi sul significato di una parola qualsiasi nelle diverse eccezioni e pronunce in italiano e in africano.
«Vrede». Mi disse Andrea una serata a tavola.
«Che cosa?»
«Vrede. ‘Pace’ in Africano. Si dice Vrede».
Non posso raccontare ciò che dissi quella sera a mio figlio.
Quali cattiverie e oscenità mi uscirono dalla bocca come mostri che non sapevo nemmeno di poter aver dentro.
Il rancore cresciuto dentro di me per mesi per quell’amicizia con la figlia dell’africano, mi aveva tolto ogni controllo di me stesso e urlavo ad Andrea che non lo avevo messo al mondo per essere così, lo avevo cresciuto per essere come me.
Come me.
Come chi?
Come un uomo che sta bene solo se sta solo?
Lisa era in quel giardino il giorno in cui dopo aver tirato coriandoli colorati per tutto il pomeriggio insieme ad Andrea, si accasciò a terra.
Io ero in veranda e vidi Lisa girare su stessa, come una dea, circondata di piccole perline colorate che le cadevano addosso dal cielo.
Si accosciò a terra, senza un tonfo, leggera, come per riposare un po’ dalla fatica di essere stata così felice.
Oggi mi vergogno a dire che non la soccorsi.
Avevo giurato a me stesso che non li avrei mai toccati con un dito.
Ma Lisa era soltanto una bambina. E io non la soccorsi.
Passarono minuti in cui il mondo mi parve essersi fermato, in cui vedevo Andrea urlare nella mia direzione, senza sentirlo, senza ascoltarlo, assorto nella guerra dei miei demoni interni.
Mi chiedeva aiuto Andrea. Mio figlio mi chiedeva aiuto.
Voleva salvare la sua amica dalle trecce colorate.
Si nascondeva sempre da me Andrea mentre disegnava.
Ma io ho sempre intravisto che il centro dei suoi fogli da disegno erano occupati da una cascata di riccioli neri e da coriandoli colorati.
Non ho soccorso Lisa quel giorno. E quando solo alcuni minuti più tardi Teddy si diresse verso il giardino in preda all’angoscia per le sorti della figlia, mi diressi in camera da letto e girai due volte le chiavi nella serratura.
Ancora una volta, stavo lasciando il mondo fuori dalla mia stanza.
Teddy aveva solo Lisa e perdere lei gli ha fatto perdere tutto il suo mondo.
Quella sera lo vidi rientrare e dal cancello non entrò più un uomo ma il suo fantasma.
Teddy barcollava, non si reggeva in piedi.
Mia moglie è a quel punto che vedendolo, uscì dalla veranda e mi sorpassò.
Mi gettò un’occhiata di disgusto e repulsione.
Mi ero innamorato di lei perché era diversa da me. Era ciò che avrei voluto essere e che non sono mai riuscito a diventare.
Libero.
Libero da costrizioni morali, da dogmi cuciti addosso per anni che mi hanno imprigionato.
Le mie insane convinzioni mi hanno fatte essere prigioniero di me stesso. Della mia stupidità, della mia ovvietà, delle mie limitazioni.
Hanno costruito un muro tra me stesso e gli altri e mi hanno fatto conoscere l’unico ego di appartenenza che mi sembrava giusto. Il mio.
Mia moglie sparì in casa di Teddy quella sera fino a notte fonda.
Tornò a casa distrutta, con gli occhi gonfi di lacrime e rassegnazione.
Non mi degnò di uno sguardo.
Andò verso la camera di Andrea. Mia moglie aveva un compito ingrato quella sera.
Doveva dire a nostro figlio che la sua migliore amica non sarebbe più tornata.
Passarono mesi difficili.
Andrea usciva solo per andare sotto il faggio in giardino.
Lì trascorreva giornate a disegnare, parlare con se stesso e immaginare come sarebbe dovuta ricominciare la sua vita senza Lisa.
Oggi è Carnevale.
La strada davanti al nostro condominio è gremita di bande musicali e di adulti e bambini in costume.
Il cancello del nostro giardino è spalancato e io controllo Andrea, vestito da Spiderman, da dentro casa.
Esce ed entra, raccoglie stelle filanti e le rilancia sulla folla.
È ad un certo punto che sento uno stridere ed una frenata in strada.
Non ho il tempo di girarmi verso quella direzione che vedo un auto fuori controllo che sbanda.
Punta in una direzione.
Cerco Andrea con lo sguardo.
Lo trovo in mezzo alla strada, nella traiettoria esatta della auto fuori controllo.
Andrea la fissa e non si muove. È attratto magneticamente dal movimento scomposto che l’auto prende ad ogni movimento scomposto.
Spalanco la porta di casa e mi getto in direzione della strada ma sono troppo lontano e l’auto troppo vicina ad Andrea.
Quando penso che sia tutto ormai perso, vedo un uomo spuntare dalla folla, sollevare Andrea, portarlo in salvo e far sfrecciare l’automobile lontano da lui.
Mi avvicino a Andrea con il cuore in gola, alzo gli occhi sull’uomo che ha salvato la vita di mio figlio e incontro i suoi.
Sono bianchi di un bianco che non ha somiglianza se non che con la neve.
Lucidi con una coltre d’acqua attorno all’iride.
Sono luce che squarciano una pelle nera come il petrolio.
Sono gli occhi di Teddy. Dell’africano.
Dell’uomo che ha salvato la vita di Andrea.
Il carnevale continua attorno a noi. La banda del paese ha ripreso a suonare. La gente è in festa.
Una foschia di coriandoli colorati ci scivolano addosso.
Esiste una forma di coraggio precisa nella vita di ognuno di noi.
Esiste una forma di coraggio che è forse la più complicata di tutte da realizzare.
Il coraggio di essere diversi da se stessi.
Coraggio di cambiare e prendere le distanze da noi, quando è necessario.
Questa forma di coraggio me l’ha insegnata un bambino di dodici anni.
Me l’ha insegnata Andrea.
L’ho appresa dalla sua amicizia con Lisa, così pura e lontana dai ricatti morali in cui io mi sono rinchiuso per una vita, dalla sua curiosità senza frontiere, dalla voglia di non avere specchi davanti agli occhi ma così tanta diversità.
Questa sera arriva un sapore lontano nella nostra cucina.
Andrea si alza, va alla finestra, lo riconosce.
Sorride leggero.
Chiude la finestra e la persiana e ritorna a tavola. Ripete un’azione che mi ha visto fare troppe volte.
Mi alzo e mi dirigo verso la finestra. Alzo le persiane, spalanco completamente le ante delle finestre.
Mi siedo a tavola. Riprendo a mangiare.
Il sapore di spezie inonda la cucina, il nostro tavolo, il nostro cibo e tutta la nostra casa.
«Cous-cous», dico.
Silvia Caramellino