Da una decina d’anni, la stampa locale di Prato e Firenze prende di mira con campagne periodiche gli orti cinesi che a partire dai primi anni Duemila hanno cominciato a germogliare nella piana, nelle aree rurali scampate alla cementificazione dei decenni precedenti e generalmente limitrofe ai distretti manifatturieri.
Negli stessi anni ho portato avanti una ricerca interdisciplinare, tra arte, botanica e antropologia, su quegli stessi orti.
Nel 2012 ho allestito un banco di ortaggi mai visti al museo Pecci di Prato, lasciando che i cittadini cinesi raccontassero agli italiani come pulire, tagliare e cucinare le verdure.
Quel progetto voleva raccontare un fatto semplice: che una comunità di migliaia di persone si nutre da anni di ortaggi a km 0. Un sogno di sostenibilità divenuto realtà, e allo stesso tempo un paradosso, perché un cavolo cinese è consumato a poche centinaia di metri da dove è stato coltivato, mentre un pomodoro (italianissimo) ha dovuto percorrere centinaia di chilometri per arrivare sulle nostre tavole e diventare cibo. Il contadino cinese, in questo contesto, è il pioniere di un ruralità virtuosa, dove l’agricoltura vive in sinergia con gli altri settori produttivi, con un impatto ambientale minimo, nel segno di una ritrovata biodiversità, stagionalità ed igiene alimentare.
Questa narrazione apparirà del tutto nuova a molti dei lettori, abituati a racconti giornalistici di segno opposto. La gamma delle accuse rivolte agli agricoltori cinesi è raramente suffragata da dati oggettivi o verificabili, ma è molto ampia. Comincerò contestando uno dei cavalli di battaglia dei detrattori dell’agricoltura cinese: il supposto uso indiscriminato di sostanze chimiche.
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