La figura di Pasolini, intellettuale tanto raffinato quanto scomodo, ricostruita attraverso un’ampia selezione di lettere, interviste, articoli di giornale, fotografie, in gran parte inediti. PasoliniRoma è al Palazzo delle Esposizioni della capitale, fino al 20 luglio.
Quel cadavere abbandonato sulla spiaggia di Ostia, martoriato dalla cieca violenza di un assassino armato da chi voleva coprire l’ennesimo scandalo della politica affaristica italiana. Così si conclude la storia di un artista, scrittore e pensatore, che è stato, con Giovanni Guareschi, l’intellettuale più scomodo dell’Italia del Dopoguerra, comunista coerente con sé stesso – ma non ligio alla linea del Pci -, omosessuale, libero pensatore, regista e poeta.
PasoliniRoma, curata da Gianni Borgna, Alain Bergala e Jordi Ballò, ricostruisce in sei sezioni documentarie, cronologicamente ordinate, l’intero percorso intellettuale e artistico di Pasolini, contestualizzato nei vari quartieri di Roma da lui abitati o frequentati, ad esempio, per riprese cinematografiche. Per la Città Eterna, lo scrittore friulano nutrì un controverso sentimento di amore-odio, ma fu qui, nell’ambiente delle borgate, che trovò l’ispirazione per buona parte della sua opera letteraria e cinematografica. Una città, Roma, che nelle sue mille contraddizione è emblema di tutta l’Italia, e di cui Pasolini si fa cantore drammatico e appassionato, ferocemente critico e dolcemente poetico.
La mostra si apre sugli anni dal 1950 al 1954, con un rapido prequel sugli anni Quaranta, incentrato sugli anni cruciali del 1945 e del 1949. Nel febbraio ’45, il fratello Guido, partigiano della Brigata Osoppo, venne trucidato dai partigiani vicini a Tito, in uno dei primi episodi della sanguinosa guerra civile che di lì a poco avrebbe insanguinato il Nord Italia. Foto giovanili del fratello, e del trasporto del feretro, costituiscono toccanti documenti che ci restituiscono la dimensione del dolore pasoliniano. E poi, l’assordante silenzio che calò sullo sterminio della Brigata Osoppo. Un’Italia ancora chiusa nella bigotteria democristiana, assisté in silenzio, nel ’49, alla sua espulsione dal partito Comunista, a seguito dei fatti di Casarsa, e la suo licenziamento da insegnante presso la scuola media di Valvasone, con l’accusa di omosessualità.
Nel 1950, arriva, sofferta, la decisione di emigrare a Roma, per lasciarsi alle spalle un Friuli ormai inospitale; Roma non è ancora la città della Dolce Vita, ma si sta riprendendo dalle ferite della guerra. Abitando in periferia, Pasolini è in quotidiano rapporto con una realtà ancora sospesa fra città e campagna, dove alla vita dura si affiancano comunque rapporti sociali a dimensione ancora umana, dove la solidarietà è ancora forte, in un periodo in cui la guerra è esperienza recente.
Qui matura l’ispirazione per Ragazzi di vita, un romanzo neorealista di stampo sociale, ragazzi del proletariato romano, costretti all’arte di arrangiarsi, nella difficile Roma del Dopoguerra. Eppure, in quell’Italia si respirava l’onesto entusiasmo della ricostruzione, si credeva in qualcosa e si era disposti a lottare per ottenerlo. Illusioni che il miracolo economico del decennio successivo farà svanire.
A seguito della pubblicazione di Ragazzi di vita, entra nell’ambiente intellettuale romano, e stringe amicizia con Laura Betti. È ormai un personaggio di spicco, e la sua fama si conferma con l’impegno nel cinema, con la stesura delle sceneggiature de La dolce vita e La comare secca, quest’ultima pellicola girata da Bertolucci nel ’62.
Gli anni Sessanta lo consacrano sulla scena cinematografica anche come regista. Fra il ’61 e il ‘63 gira Accattone, Mamma Roma, La ricotta, pellicole attraverso le quali ci parla di una città, Roma appunto, che si sta trasformando in metropoli, divorando ettari di campagna per trasformarla in squallida periferia soffocata dal cemento, una periferia dove allignano alienazione e perdizione; qui vivono ladri, prostitute, protettori, individui senza troppi scrupoli, cresciuti alla scuola dell’arte di arrangiarsi a ogni costo, fra l’indifferenza e la logica di sfruttamento della classe borghese. Il pensiero di Pasolini si concentra sui guasti della cosiddetta società industriale, che getta l’uomo nel vuoto del consumismo, lo rende oggetto di un progetto politico pensato da altri a loro esclusivo beneficio.
Pasolini è ormai ufficialmente un intellettuale scomodo, il cui comunismo lontano dalle direttive di partito lo rende vieppiù un individuo sospetto, cui si aggiunge l’omosessualità, conclamata con la relazione con Nino Davoli, nata sul set di Accattone.
Roma sta cambiando, la realtà metropolitana sta prendendo il sopravvento su quella dimensione di agglomerato popolaresco che aveva attratto Pasolini, il quale nel ’63 si trasferisce nella zona dell’Eur, e per questa sua scelta verrà tacciato di “imborghesimento”. A isolarlo ancora di più, negli ambienti della sinistra, sarà la posizione che lo scrittore assunse nel marzo del 1968, all’indomani degli scontri di Valle Giulia che videro opposti gli studenti universitari a reparti di polizia e carabinieri. La sua solidarietà andava alle forze dell’ordine, costituite in gran parte da figli del popolo, impegnati in un lavoro rischioso per uno stipendio da fame, mentre i giovani manifestanti erano i “i figli di papà” della Roma bene. Pasolini si schiera contro l’illogicità di una “rivoluzione” che perde di vista i reali obiettivi ideologici – forse troppo difficili da raggiungere -, per accontentarsi di una contestazione di facciata, dove la facile violenza è valvola di sfogo di frustrazioni di altro genere.
Gli anni Sessanta lo vedono scrivere due delle sue poesie più toccanti, scritte per la scomparsa di Marilyn Monroe e Pio XII. Se per Marilyn c’è il compianto verso una persona fragile, uccisa anche dalla solitudine, per l’ex Pontefice Pasolini scrive una requisitoria piuttosto dura, nella quale lo accusa di essere un grande peccatore, non avendo fatto tutto quel bene che invece la sua carica gli avrebbe consentito di fare. Il male più grave, spiega Pasolini, non è il peccato in sé, ma è il rinunciare a fare del bene. Un’opinione particolarmente difficile da accettare in quell’Italietta ancora timorata.
La sua visione intellettuale si fa sempre più radicale, e lo dimostra nella trilogia Il Decamerone, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, forse i suoi film più controversi e meno compresi, che si riallacciano all’anticlericalismo del Candelaio di Giordano Bruno (altra figura che a Roma ebbe vita difficile); attraverso opere dalla poetica cruda e visionaria, Pasolini è alfiere del libero pensiero, instancabile argonauta alla ricerca di una condizione, quella della libertà appunto, che al potere è sempre risultata scomoda. Libero in una prigione – come a suo tempo lo erano stati Malaparte, e ancora, prima di lui, Pavese, Fenoglio, fino a Caravaggio, Giordano Bruno e Pietro Testa -, Pasolini avverte la responsabilità degli intellettuali di discutere la realtà, anche quando si toccano verità scomode. Non era una bella Italia, quella degli anni di piombo, della crisi energetica, dei compromessi più o meno storici. Nel 1974, esce sul Corriere della Sera una sua decisa presa di posizione in politica interna, esplicitata nell’attacco alla DC, dove accusa la Balena Bianca di aver instaurato un vero e proprio regime. Per completezza, la mostra propone anche la risposta dello stesso Andreotti, uscita pochi giorno dopo, e che ovviamente smentisce l’accusa.
Davvero brutta quell’Italia, dove il potere occulto derivato dalla connivenza fra politica ed economia esercitava un capillare controllo sulla morale, sul costume, sul pensiero, cui si aggiungeva quella strategia della tensione che copriva le manovre della lobby affaristico-politica.
Di questa Italia ci parla l’ultimo film di Pasolini, le cui riprese iniziarono nel febbraio del ’75; quel Salò o le 120 giornate di Sodoma, ispirato alla quasi omonima opera del Marchese De Sade, dove il sesso brutale, metafora del controllo del corpo e della mente, denuncia lo sfacelo culturale e antropologico delle classi popolari italiane a opera della spietatezza livellatrice delle classi dominanti.
Fra il ’72 e il ’75, lo scrittore lavora febbrilmente alla stesura di Petrolio, uscito però postumo e incompiuto, un romanzo antropologico che è anche saggio politico, dove il protagonista è un ingegnere dell’Eni dalla doppia vita, cattolico e comunista insieme, sessualmente ambiguo, che si muove fra logge massoniche, lobby degli affari, e politica delle stragi. Un romanzo che, incentrandosi sulle strategie petrolifere italiane, diventa la metafora della politica del Paese.
La mostra propone il filmato dell’ultima intervista, rilasciata il 31 ottobre, a proposito del film, dove il regista tentò di spiegare le motivazioni che lo avevano portato a girare Salò. Il film creò attorno a Paolini un clima di aperta ostilità, che si aggiungeva a quella creata da un articolo apparso sul Corriere della Sera quasi un anno prima, il 14 novembre ‘74 Io so i nomi dei responsabili delle stragi italiane, che ebbe seguito il 1 novembre 1975, con l’intervista rilasciata a Furio Colombo per La Stampa, che per espressa volontà di Pasolini stesso, viene pubblicata con il titolo Siamo tutti in pericolo.
Il giorno dopo, 2 novembre, l’epilogo, raccontato dalla foto del cadavere sulla spiaggia di Ostia, coperto da un lenzuolo bianco. È l’icona tragica di un mistero italiano del quale, il prossimo anno, ricorreranno quarant’anni di vergognosa omertà, con le indagini frettolosamente chiuse senza aver presa in considerazione la testimonianza di Franco Citti, che smentisce da subito la ricostruzione dell’omicidio. Si parlò di delitto maturato negli ambienti dei “ragazzi di vita”, di un alterco per cause sessuali sfociato in tragedia, e il colpevole venne identificato in Pino Pelosi. Invece altri – fra cui Bertolucci, Dacia Maraini, Laura Betti -, sostennero che Pasolini cadde in una trappola, tesagli con la falsa promessa, da parte di malavitosi, di restituirgli alcune copie della pellicola Salò, rubate poco tempo prima. All’origine dell’omicidio, la scomodità di un intellettuale che aveva tentato di sollevare un velo sulle stragi di Stato, l’omicidio Mattei, e la strategia della tensione. Fu contestato il modo sbrigativo di condurre le indagini, la fretta di archiviarle, così come del resto era accaduto con l’omicidio di Enrico Mattei.
Soltanto nel 2005, con la ritrattazione di Pelosi, che dichiara di non aver agito da solo, e con la rivelazione di Marcello Dell’Utri (fra l’altro, ancora in attesa di estradizione dal Libano per il reato di associazione mafiosa), di essere in possesso di Lampi sull’Eni, il capitolo mancante di Petrolio, il caso sarà riaperto. Ma ancora una volta, del capitolo mancante non c’è traccia, e le indagini sono nuovamente arenate.
La vicenda umana e intellettuale di Pasolini s’intreccia con trent’anni di storia italiana, e, quasi per uno scherzo del destino, inizia e finisce con l’assassinio: quello del fratello Guido, nel febbraio del ’45, e quello dello stesso Pier Paolo, nel novembre del ’75. Due fatti di sangue che racchiudono le peggiori facce dell’Italia, quella della guerra civile, dell’accomodamento, e quella della politica sporca, dello sfruttamento delle masse secondo la logica del consumismo. Il silenzio che, da subito, calò su entrambi gli omicidi, è anch’esso sintomatico di quale nemico Pasolini abbia combattuto in vita.
Duole constatare che il costume della politica italiana non è cambiato negli ultimi decenni, il dopo Tangentopoli mostra lo stesso livello di corruzione, il concetto di consumismo, nonostante la crisi, è ancora propagandato come simbolo di progresso e uguaglianza sociale.
Niccolò Lucarelli