Con Jackson Pollock. La figura della furia, la retrospettiva dedicata all’artista di Cody, Firenze gli rende omaggio, proponendo un confronto con Michelangelo Buonarroti, insospettabile maestro dell’iniziatore dell’informale. Con l’espressione la figura della furia, s’intende far riferimento all’impeto che Pollock metteva nel dipingere le sue grandi tele, e contemporaneamente richiamare la “furia della figura”, con cui a fine Cinquecento Giovanni Paolo Lomazzo descrisse la dinamica bellezza delle sculture di Michelangelo. Ad avvicinare i due artisti, è infatti l’urgenza creativa che assume una valenza esistenziale, seppure declinata secondo approcci diversi. La ricerca del mondo ideale, della perfezione trinitaria pagana e cristiana in Michelangelo, e la finitezza dell’uomo nella ruvida pennellata di Pollock. Un parallelo che è facile cogliere in Palazzo vecchio, dove il Salone dei Cinquecento accoglie diverse sculture di Michelangelo.
La mostra è articolata in una doppia sede: le Sale dei Gigli e della Cancelleria di Palazzo Vecchio, ospitano sedici opere di Pollock, fra cui sei disegni, e dipinti che vanno dagli anni Trenta ai primi anni Cinquanta, provenienti da musei e collezioni italiani e stranieri. Invece, la Sala della Musica del Complesso di San Firenzeoffre spazi interattivi, apparati didattici e multimediali che approfondiscono la figura di Jackson Pollock. Una scelta che apre la città a Pollock, e viceversa.
Una mostra tutta da scoprire, che porta alla luce il legame tra Firenze e l’arte contemporanea, un legame necessario perché la città continui a essere al centro del discorso culturale non soltanto italiano o europeo, bensì globale. Un legame che nasce senza troppa difficoltà, poiché l’arte contemporanea altro non è che l’esito momentaneamente finale di una tradizione che si fonda necessariamente sul passato, di cui Firenze è ricca.
Pollock liberava il segno, e con esso, tutta la rabbia di un America in difficoltà, quell’America profonda che non si era completamente scrollata di dosso le conseguenze della Grande Depressione, l’America che “tira la carretta”, narrata da John Steinbeck, e, più tardi, da Raymond Carver. Dipinti, quelli di Pollock, che in crogiuolo di linee e colori, danno voce a quella realtà eterogenea che è il Grande Ovest, dove l’esistenza quotidiana è fatta di grandi spazi, istinti anche violenti, e cittadine vissute ancora oggi come fossero avamposti di frontiera. Dal suo pennello disincantato, che non tende alla perfezione, emerge tutta la finitezza dell’essere umano, il caos anche mentale nel quale è coinvolto, (non dimentichiamo che Pollock era accanito lettore di Jung), attraverso quell’action painting lontana dalle patinature della Beat Generation prima, e della nscente Pop Art dopo, della scena newyorkese. Alla loro stregua, Pollock è cantore dell’anima primale americana, che lo scorrrere dei decenni non ha alterata nella sostanza, e nemmeno negli usi e nei costumi.
L’accostamento con Michelangelo, seppur a prima vista azzardato, nasce da quella che è stata la lunga “frequentazione” di Pollock con il Genio di Caprese, testimoniata dai sei splendidi disegni – provenienti dal Metropolitan Museum di New York e per la prima volta esposti in Italia -, che possono essere considerati altrettanti studi di Pollock sulla plasticità e la monumentalità michelangiolesche. Le figure riprodotte rimandano direttamente a quelle della Cappella Sistina e del Giudizio Universale, che Pollock ebbe modo di conoscere nel periodo del suo apprendistato presso Thomas hart Benton, pittore americano nonché ammiratore del Rinascimento italiano. Ma dietro la mostra, stanno anche considerazioni concettuali. Pollock liberava il segno, come si è detto di sopra. Parallelamente, con quattro secoli d’anticipo, Michelangelo liberò il marmo dalla tensione latente che vi leggeva, donandogli nuova vita sottoforma di statue che, ancora oggi, parlano all’uomo dell’uomo. Quel suo “non finito”, come afferma la Sorpintendente Acidini, è il primo esempio di quella dissoluzione della forma che sarà poi la cifra dell’informale, e già l’illustre critico Eugenio Battisti, definì Pollock un artista michelangiolesco. Ispirandosi all’ineffabile bellezza del gioco di pieni e di vuoti che caratterizza l’opera di Michelangelo, vi basò la struttura delle sue composizioni pittoriche, infondendovi una tensione creativa che aveva indubbi contatti con la tensione interiore dell’artista, e dell’uomo contemporaneo in genere.
Considerazioni del genere sono utili strumenti per guardare al patrimonio artistico fiorentino, prettamente legato ai secoli passati, con occhi nuovi, e soprattutto per comrpendere più approfonditamente l’influenza che Firenze, già definita da Vasari la “scuola del mondo”, ha avuto sull’arte mondiale, anche dei secoli successivi. Estendendo la riflessione, c’è della bellezza nell’osservare processi artistici che si ramificano nei secoli, dando vita a ideali dialoghi fra epoche diverse, e si scoprono aneliti e angosce che non hanno mai smesso di tormentare l’umanità, o almeno quella più illuminata.
Curata da Sergio Risaliti e Francesca Campana Comparini, la mostra è visitabile fino al 27 luglio. Ulteriori informazioni su orari e biglietti, al sito www.pollockfirenze.it.
Niccolò Lucarelli