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Quali mosse per salvare il lavoro in Italia?

Aziende come Elica, Gkn, Whirlpool, Gianetti Ruote, Bekaert, Timken, Blutec, ex Ilva, ex Embraco, Wanbao Acc, per citarne alcune, sono scoppiate per ragioni che risiedono in un assetto globale radicalmente cambiato e posto di fronte alla crisi scatenata tanto dalla bolla quanto dalla pandemia. Un risultato che fa temere per il destino di migliaia di persone, famiglie e comunità, al cospetto di una realtà radicalmente diversa da quelle alle quali eravamo abituati. Tanto che sull’esito degli sforzi, gli impegni e i tentativi del governo e di altri soggetti c’è molto da dubitare. Realtà mutata, in peggio o in meglio che sia, e strumenti vecchi male si accordano e, mentre la politica ciancia e le parti sociali pure, i lavoratori restano a casa.

Sta di fatto che i tavoli di crisi, aperti al Mise a giugno erano già 85, con decine di migliaia di lavoratori coinvolti, e tra i settori più colpiti figuravano siderurgico, automotive, elettrodomestico e il settore aeronautico.
I numeri della crisi si aggiungono a tanto altro lavoro venuto meno o a rischio. I licenziamenti sono destinati a crescere e, in un quadro in cui l’emergenza pandemica si prolunga, pesano la profonda trasformazione industriale di lungo periodo e l’assenza di un progetto che non ha analizzato e affrontato le cause e rimedi della crisi del 2008.

Bisogna avere il coraggio di definire regole per le multinazionali e la finanza, non bastano solo leggi nazionali: perché non si operi ostaggio di una concorrenza globale selvaggia che premia e impone un’economia al massimo ribasso, servono norme europee, o frutto di cooperazione rafforzata tra più Paesi, che possano incidere su comportamenti e scelte che diversi gruppi mettono in atto globalmente. Altrimenti i singoli governi continueranno a trovarsi in difficoltà di fronte a chi, in alcuni casi, può tranquillamente produrre e pagare le tasse in luoghi del mondo privi di sistemi di regole e tutele che non siano solo di facciata.

Un primo passaggio potrebbe essere quello di definire una normativa europea, o condivisa da più Stati sulla responsabilità solidale dei grandi gruppi, che ponga vincoli fiscali, sociali e ambientali sulle intere catene locali e globali che legano fornitura, produzione e distribuzione.

L’accordo siglato dai Paesi del G20 sulla tassazione al 15% per le 100 multinazionali più ricche del mondo è troppo timido, bisogna avere il coraggio di riformare la finanza globale, altrimenti verrà lasciato campo libero a un capitalismo finanziario che è solo speculativo.

Occorre mettere le mani sui tanti fattori che minano la competitività come i ritardi sulle politiche industriali e le infrastrutture materiali e non.

Una politica amorfa e governi predatori hanno accantonato l’idea di una discussione sulla vocazione naturale e storica dell’Italia a essere un grande porto, nonché, crocevia di civiltà e dialogo nel Mediterraneo e di conseguenza, mondiale.

La collocazione strategica dell’Italia è stata abbandonata tra le mani della mafia, concorrendo alla sua fortuna, mentre è drammaticamente poco considerata e valorizzata dal sistema Paese, se lo fosse permetterebbe di assumere appieno quella responsabilità internazionale che la storia ci ha assegnato.

L’Italia ha la mobilità sociale bloccata, le carriere lavorative vulnerabili e precarie che si plasmano e spesso si “ereditano” già nella preadolescenza.

Serve rimettere al centro una riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro che non sia solo emergenziale.

Occorrerebbe con urgenza anticipare i cambiamenti profondi del mondo del lavoro e le trasformazioni dei diversi settori, ripartendo dalla scuola, che va interpretata come sistema di istruzione e formazione professionale che accompagni per tutta la vita le persone, riscoprendo un suo mandato educativo e di lotta alle diseguaglianze.

Le scelte politiche devono essere orientate a chiedere e premiare un lavoro in cui si cresce professionalmente ogni giorno.

Questo tempo difficile mette in luce tante realtà imprenditoriali, soprattutto quelle dove i lavoratori sono riusciti a salvare la propria azienda trasformandola nella propria cooperativa e ogni giorno scommettono su competenze e professionalità, sul coinvolgimento e la qualità della condizione dei lavoratori, sul fare rete con il territorio e con altre imprese, sul concorrere puntando sulla qualità.

L’Italia nei prossimi anni, nonostante il perdurare di una crisi che non ha eguali, può dire la sua, nel dettare quella conversione dell’economia che quest’epoca da tempo reclama: quella del passaggio dal prevalere di una logica predatoria e di insostenibilità sociale, ambientale e civile, a una logica che persegue uno sviluppo autenticamente sostenibile perché autenticamente umano.

Alfredo Magnifico

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