Caro Fabrizio,
i miei amici dicono che questa volta Rio non torna.
Tra la moltitudine di riflessioni filosofiche e frasi fatte che mi declamano con saggezza la mia preferita è «Le persone non sono autobus, non bisogna stare fermi ad aspettarle».
Ogni volta che la sento le mi labbra si increspano, a quel punto pensano che quel mezzo sorriso sia prova che il saggio consiglio uscito dalle loro labbra, più che dai loro cuori, abbia generato una forza tale che io possa prendere qualsiasi autobus mi passi davanti. Ma nella vita non si fa così, non si prende il primo autobus che passa.
Tu che dici Fabri, secondo te Rio torna?
Sai, la prima volta che l’ho visto i suoi capelli avevano lo stesso colore del miele. Li teneva più lunghi degli altri ragazzi che conoscevo, un po’ mi dispiaceva che i suoi lineamenti venissero a tratti coperti dai capelli scompigliati che gli ricadevano sul viso quando puntava gli occhi al terreno, ma con un taglio diverso il mio Rio non sarebbe stato lo stesso.
Dirti che i suoi occhi erano azzurri come il cielo o dello stesso colore del mare in aprile non renderebbe loro giustizia, quindi non immaginarteli di un colore, immaginateli di un sentimento: amore. Verso di me, verso la sua famiglia, verso i suoi amici, verso qualsiasi cosa dicesse «Io vivo».
Quella volta mi sorrise stancamente mentre buttava la sigaretta prima di allontanarsi dal parchetto in cui casualmente ci eravamo trovati, non sapevo il suo nome, neanche se l’avrei mai rivisto per chiederglielo, ma soprattutto non sapevo che avrebbe lasciato sul mio cuore un segno indelebile.
Dopo un gran numero di sigarette, tante risate, qualche battibecco e due o tre silenzi la mia conoscenza verso quel ragazzo aumentava a dismisura lasciandomi ignara che avrebbe presto raggiunto il suo apice.
Per quanto Rio mi lasciasse conoscere i suoi angoli bui c’era una presenza femminile che nascondeva a me, a quella ragazza che teneva lontano dai suoi amici. Col tempo però li conobbi, probabilmente Rio si era stancato dei miei assidui “Posso conoscere i tuoi amici?”, così di quando in quando al parchetto venivano anche loro.
La prima volta che Rio mancò ad un appuntamento era esattamente un anno che ci eravamo rivolti la parola per la prima volta, e io pensando di fargli una sorpresa gli avevo portato dei biscotti. Ci credi Fabri che li avevo fatti io? Io che quando venivi a pranzare da me ti facevo un toast perché era tutto quello che sapevo fare. Li avevo cucinati apposta per un tizio che non li avrebbe mai mangiati perché furono riversati sul terreno per mano di quel sentimento che aveva atteso come me un ragazzo dai capelli color miele che non sarebbe mai arrivato.
Non mi chiamò e non mi scrisse per tre giorni, in quel momento mi sembrarono tre autunni. Ero così arrabbiata e preoccupata, il telefono oramai faceva parte del mio corpo; acceso a tutte le ore del giorno e della notte non si illuminava mai per mostrarmi il suo nome. Ore di attesa, come quella volta che mi hai trascinato al concerto degli 883, il freddo che allora sentivo per il gennaio inoltrato lo sentivo quei giorni per un’attesa che aveva tutte le potenzialità di essere vana.
Lo vidi una settimana dopo, leggermente più magro e stanco. Sfruttò il fatto che avessi le cuffiette per avvicinarsi da dietro e costringermi a lasciarlo spiegare mentre mi teneva ferma per un polso. Volevo rimanere arrabbiata, fargli capire che avevo avuto paura di non vederlo più, che quell’attesa mi aveva lacerata ma non potei fare a meno di poggiare la testa sul suo petto e sentire di nuovo quel cuore battere vicino a me mentre gli sussurravo «Non farlo mai più».
Ma lo rifece sai, lo fece ancora dopo un mese e poi sempre più frequentemente. Spariva per giorni, per una settimana, per più di una settimana; tornando sempre più magro, più stanco, con i capelli più lunghi e gli occhi dello stesso colore della tristezza.
Io lo maledivo, gli urlavo contro dopo ogni ritorno mentre le lacrime calde mi rigavano le guance ma ero incapace di tutto eccetto di perdonarlo.
Non capivo cosa gli stesse capitando, non me ne parlava, più mi avvicinavo più mi allontanava. I nostri incontri diminuirono, spesso mi chiedeva di raggiungerlo nel suo appartamento invece di trovarci nel parco che aveva significato tanto per entrambi.
Non avevo più visto i suoi amici, non mi parlava di molto, non si parlava di molto. Mi fissava e faceva discorsi tristi ai quali non sapevo mai rispondere. Diceva che non meritavo questo, che questo avrebbe distrutto più me che lui, continuava a dire «questo» senza mai dire cosa fosse.
Vedere il suo fantasma più che vedere Rio, sedere vicino a quel corpo che una volta non si fermava neanche sotto tortura non produceva neanche metà della sofferenza che produceva invece l’essere tenuta all’oscuro dal motivo di quel cambiamento.
Poi, per caso, perché ero dove non dovevo essere, incrociai un amico di Rio. Gli chiesi dove fosse il mio Rio, cosa lo avesse allontanato da me. Gli chiesi e non rispose, fissandomi negli occhi. Glielo richiesi e non rispose tenendo gli occhi fissi su di me, poi glielo chiesi un’ultima volta e disse delle parole che più che averle udite vennero scalfite nella mia mente «C’è un’altra nella sua vita, ma non è una ragazza, è eroina».
Per un attimo non ci fu nessun suono, nessun odore, nessun colore; per un attimo non ci fui neanche io.
Potrei giurare che era estate e faceva caldo eppure io sentivo un grande freddo e avevo gli occhi appannati, ma non c’era il sole?
Poi tornarono anche i suoni e sentii la voce di quel ragazzo distante mentre mi diceva qualcosa di cui colsi solo pochi spezzoni: «Non voleva che tu lo sapessi» «Non sappiamo più come aiutarlo» «Non vuole che tu lo veda quando non è pulito».
Fabri ma quante cosa ha scelto Rio per me? Che voleva il mio bene ma il mio bene era lui.
Io pensavo che i suoi stessero male, o che si fosse quasi innamorato di una ragazza e non me lo volesse dire, invece si faceva in vena.
Poi corsi in direzione del suo appartamento pestando i piedi sull’asfalto bollente mentre il vento modellava i miei capelli e mi spezzava un respiro dopo l’altro, spinsi il portone e salii le scale sfiorando il corrimano con una mano tremante per accasciarmi infine davanti alla sua porta.
Aspettai un suono, un pensiero, qualcosa da dire, che Rio uscisse o rientrasse, come sempre non sapevo dove fosse. Ma i secondi divennero minuti e i minuti ore e il sole si fece rosso e affondò col suo calore, e tutto fuori di me taceva.
Con la testa fra le ginocchia cercavo di trattenere i singhiozzi, proprio come quando mi hai detto che partivi. Erano così forti che non mi accorsi di una mano che mi accarezzava la schiena finché non sentii la sua voce. Disse che non avrebbe voluto vedermi così e nemmeno che io lo vedessi così, che non avrebbe mai voluto un momento così triste per noi; ma la sua voce era flebile in confronto ai miei singhiozzi, ancora più flebile se ricordavo quella che aveva quando eravamo felici.
Quando poi mi tese la mano per alzarmi vidi il suo braccio, bucato in più punti, dalle vene ingrossate e gli dissi «Pare un cielo pieno di stelle» lui rispose con un sorriso che non vedevo da tanto ma probabilmente lo guardai troppo intensamente e lo sciupai perché divenne subito una smorfia «Vedo già una luce» mi disse
«È quella di un faro?» risposi traboccante di speranza «È la fine di un tunnel» sussurrò più a sé stesso che a me mentre chiudeva la porta alle nostre spalle.
Sulle luci dell’alba mi riaccompagnò a casa mia e prima di andarsene mi baciò. All’inizio era un bacio leggero dove appoggiò la sua fronte sulla mia, poi divenne più intenso e mi strinse come non aveva mai fatto e infine si staccò, mi guardò e senza dire una parola se ne andò. Rio non mi aveva mai baciato, io non l’avevo mai baciato, certo aveva pensato di farlo e lo avevo pensato anche io ma senza dirlo esplicitamente sapevamo che se la nostra amicizia fosse cambiata l’uno avrebbe perso l’altro.
Dopo mi ricordo lo squillo di un telefono, un urlo, il vento freddo fin dentro la elle, vestiti neri e il più grande mazzo di fiori gialli che io avessi mai visto.
A me stessa dico di non ricordare tanto di quei giorni che iniziarono con un bacio, agli altri dico di non ricordare tanto dei momenti passati con Rio. In realtà, Fabri, io mi ricordo ogni sguardo, ogni parola, ogni respiro, ogni pensiero non espresso e se fosse possibile ricorderei ancora di più.
Da allora ogni giorno io torno da lui ma ancora aspetto che lui torni da me.
Tu che dici Fabri, secondo te Rio torna?
P.S: Lascio sempre un mazzo di chiavi sotto lo zerbino e a tavola c’è sempre apparecchiato un posto in più.
Mi hanno detto che le cose belle hanno bisogno di tempo e lui è così bello che potrei aspettarlo per l’eternità.
Giorgia di Giacomo