Ci conoscemmo alla fermata del bus ed iniziammo una chiacchierata tra sconosciuti, come è sempre più raro di questi tempi. Poi, in una di quelle mattinate fredde e piovigginose quell’uomo mi invitò a salire a casa sua, all’ultimo piano di un vecchio palazzo senza ascensore. Lo seguii sulle scale udendo il suo respiro sempre più affannoso che contrastava con una certa sicurezza di sé che il suo incedere faceva trapelare. La lunga manica del cappotto invernale quasi nascondeva la mano che sfiorava a tratti il muro scrostato del vecchio edificio, come la carezza di un nonno a un nipote. Fermandosi un momento dopo aver aperto la porta di casa, quell’uomo si girò lentamente verso di me con un largo sorriso e mi invitò ad entrare tendendo il braccio al cui termine si apriva una mano robusta e rugosa. Entrammo nel suo appartamento, in penombra: un luogo austero, fornito dei mobili essenziali per una persona sola. L’uomo mi condusse in fondo al corridoio verso quello che doveva essere il suo studio, nel quale entrava la grigia luce di una giornata piovosa. Guardando un’altra volta il viso di quell’uomo mi accorsi, vergognandomene, che quel volto che avevo conosciuto alla fermata del bus l’avevo già visto molto tempo prima. In qualche luogo della mia mente erano già impressi i tratti di quel viso. Con un po’ di timore, mentre lui mi invitava a sedere su una poltrona, gli chiesi: «Mi perdoni per la domanda, ma io devo averLa già vista qualche volta prima che ci incontrassimo alla fermata del bus». «Sicuro, caro giovane, non dubito che Lei mi abbia visto» rispose bonariamente. «Mi creda, era un tormento, ma dovevo farlo perché sentivo che fosse ancora necessario, per questo Paese. Partecipavo a quegli incontri televisivi serali nei quali si invita il filosofo, meglio se maturo come me, per fargli dire due parole in trenta secondi, un pensiero su qualunque cosa accada nel mondo. Guardi, ho smesso. Non rispondo più a quegli inviti. Smisi quando iniziai a immaginare le migliaia di persone che mi ascoltavano, forse anche qualche mio lettore, pensavo…. che idea si sarebbero fatti di me? Ma come, quest’uomo che ha scritto testi da ottocento pagine sulla natura dell’ Essere ora pretende in due secondi di spiegarci perché bisognerebbe essere a favore o contrari su scelte etiche delicatissime buttate li’, in prima serata, tra uno spazio pubblicitario e l’altro? Io volevo argomentare, io credevo ancora che si potesse spiegare e sostenere in qualche modo le proprie ragioni. Ma allo stesso tempo mi rendevo conto che chi fingeva nello studio di dialogare con me in realtà cercava una frase ad effetto per silenziarmi. Era una lotta che non volevo combattere, almeno non in questo modo. Mi creda, non vado più, e non per un atteggiamento da snob. Non vado per rispetto di chi dovrebbe iniziare a ragionare, a sostenere delle idee in maniera critica. Non vado perché ho rispetto del cittadino. E’ arrivato il momento di iniziare a pensare che le cose richiedono tempo, e che per pensare ce ne vuole molto. Mi creda, io continuo a essere un intellettuale, cioè una persona che usa l’intelletto. E proprio per questo motivo» aggiunse indugiando «fui mandato anche in carcere, allora, quando c’era la dittatura». Mi sentii all’improvviso il volto avvampare. Come avevo fatto a non ricordarmene? Dalle mie memorie di studente svogliato mi appari’ il volto di quell’uomo, molto più giovane, da una pagina di un libro di storia. «E allora, giovane, credeva che fossi morto?» aggiunse quell’uomo perentoriamente. «Pensava che ciò che sta scritto su un libro di storia sia solo fantascienza?» disse notando il mio imbarazzo. «Lei è Sermati, quello che scrisse il famoso manifesto contro il regime?» «Sì, sono proprio io, quarant’anni dopo e con molte rughe in più. In ogni caso vorrei che Lei continui a chiamarmi Antonio, per favore». Fu allora che mi resi conto di essere di fronte a uno dei personaggi più importanti della nostra di questa nazione. «Stia lì seduto, Le vado a fare un caffè, e mi dia il cappotto». Mi sedetti. Lo studio era una biblioteca immensa. Dal pavimento al soffitto, sui quattro muri della piccola stanza, si affastellavano libri vecchi e nuovi, di colori disparati. Alcuni sembravano essere stati letti da poco, su altri poggiavano chili di polvere. Mi pareva di vedere quell’uomo alzarsi e prendere un testo, e dialogare con chi l’aveva scritto, come faceva con me. All’improvviso desiderai leggere tutto ciò che lì era scritto. Compresi che gran parte della mia vita dai tempi della scuola si era persa invano, tra mille cose inutili, che pure il nostro tempo giudicava indispensabile. «Sono tanti, tantissimi, sono la mia vita» disse quell’uomo guardando con un sorriso i suoi libri. Stava ritto con le braccia rigide sostenendo il vassoio sul quale stavano due tazzine fumanti. «Sono tutto ciò in cui credo ancora, e vorrei condividerlo con Lei, caro ragazzo. Quando vorrà venire qui da me, mi telefoni, e io Le metto a disposizione la mia biblioteca». Si sedette poi lentamente sulla poltrona di fronte a me, mettendosi una coperta sulle ginocchia. «Vede, ho capito» continuò passandosi una mano sulla fronte un po’ timidamente “che non vorrei essere altro che questo, un uomo che insegna qualcosa a un altro uomo. Non vorrei altro che godere della formazione culturale di un altro uomo come me, e imparare anch’io qualcosa da Lei, mentre Lei studia. Non ho altro desiderio che questo. E non voglio che Lei mi paghi, sarà Lei a pagare me studiando. Io ho cercato di salvare questa Nazione. Ho lottato, mi creda. Abbiamo avuto la libertà prendendo le armi, e poi ce l’hanno tolta di nuovo, senza le armi, mentre compravamo il televisore nel quale mi ha visto discutere come uno scemo. Abbiamo combattuto credendo nel potere dell’argomentazione, come Le dicevo, e ci hanno vinto con le immagini e il vuoto intellettuale. Quando ero segretario del più grande partito d’opposizione credevamo che saremmo riusciti a dimostrare con le parole a questo popolo che la giustizia sociale e il bene comune sono più importanti del proprio tornaconto. Poi ho capito che in quel partito stesso ero l’unico a credere veramente a queste cose, e me ne sono andato via. Hanno fatto male a questa Nazione. Ma noi abbiamo perso, non c’è dubbio. Hanno chiamato libertà la schiavitù, usando le nostre stesse parole di allora. Hanno stravolto una parte delle nostre parole fino a renderle irriconoscibili, dice un poeta. Era un mito della mia gioventù. Le do un compito, cerchi questi versi e me ne parli Lei, sarà bello sentirli dalla Sua voce. Ora però” disse quell’uomo indicandomi un libro tra i tanti «mi prenda quel testo lì, là in fondo». Il mio sguardo segui’ tentennando il dito dell’uomo fino a riconoscere un vecchio volume dalla copertina assai rovinata, dove pure si riconosceva il titolo dell’opera, tra molte decorazioni stilizzate floreali. «Me lo dia» chiese l’uomo «i libri cui tengo di più sono quelli più vecchi. Ho un amore sconfinato per le pagine gialle e l’odore di muffa dei libri antichi». E cosi’ dicendo vidi il suo volto beato affondare tra le pagine ingiallite per inalare l’odore di cui aveva parlato. I suoi occhi brillavano. Iniziò a leggere:
“Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena;
nos patriae fines et dulcia linquimus arva;
nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas….”
Non capivo nulla di ciò che leggeva perché non avevo studiato quella lingua ma la bellezza di quella voce e il trasporto con cui rendeva la musicalità del testo mi lasciavano senza parole. Avrei voluto che quell’uomo non terminasse mai di leggere. Avrei desiderato che lui mi leggesse quel testo fino alla fine dei miei giorni. «Vede» aggiunse poi terminando di leggere «Lei probabilmente non ha capito nulla di quello che Le ho letto, ma mi dica, Le piace?» chiese con apprensione. «É bellissimo» dissi io «vorrei imparare a leggerlo come lo legge Lei» «Glielo insegnerò, non dubiti. Abbiamo tempo e non correremo, come quelli là fuori» mi disse indicando la finestra. «Io vorrei che Lei comprendesse che per prima arriva la meraviglia. Ce l’ha uccisa il mito razionalista del dover inquadrare tutto in caselle, stanze della nostra mente. No, io voglio vivere con Lei di questa meraviglia, e voglio essere Lei mentre sta godendo di questa musica. Lei non sa neppure che questo testo è stato scritto più duemila anni fa né chi l’abbia scritto, ma ha goduto della Bellezza, e questo è quello che conta. Vede, quando chiesi anni fa alla mia insegnante se ci avrebbe insegnato a leggere l’esametro, il genere di verso che Le ho letto, rispose che non avevamo tempo, bisognava finire il programma. Era già schiava del bisogno di avere dei risultati in breve tempo. E deluse la mia voglia di imparare. Ecco, io non voglio deluderLa. Voglio che Lei sappia che sono io a non dover deludere i Suoi desideri, non il contrario. Io voglio che Lei trovi la Bellezza da solo e voglio vivere della Sua ricerca. E quando Lei leggerà uno qualsiasi di questi testi, io vedrò i Suoi occhi rincorrere il sogno che colse i miei quando lessi di Andromaca parlare con Ettore sulle porte Scee e la paura di Astianatte per il grande cimiero. Non abbiamo più la meraviglia. É cosa da donne, ci dicono i razionalisti. Per loro il Sole è soltanto una palla di fuoco che gira, e dobbiamo sapere quanto Elio vi sia contenuto in esso ma non immaginiamo più che sia il carro di Helios dorato che reca il giorno. Cerchi la poesia dove si piange questa fine nella quale siamo incorsi….con la meraviglia abbiamo perso anche la sacralità dell’esistenza. Crediamo che il Sacro sia andare in una chiesa e dire delle litanie. Nossignore. La vita è sacra perché è ricerca della Bellezza e della Meraviglia. E io vorrei che questo per Lei fosse il suo luogo sacro, nel quale finché vivrò Lei potrà venire sempre. E me li tenga bene, i miei libri, quando non ci sarò più».
Mirko Baglione