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Racconto di Mirko Menolfi

Il vociferare della zona industriale, l’incessante ed esoso mugghiare d’ingranaggi in movimento, i tonfi delle presse, le urla dei flessibili, la pomposa orchestra di martelli picchiati contro la superficie grezza d’un cilindro d’acciaio da sgrossare.
Il posto era poco oltre i binari, al di là del passaggio a livello, spauracchio, sperduto, l’immondezzaio del mondo. Lo stesso dove la gente lavorava, intrisa d’olio e trucioli glabri, sporchi. Sporchi come i brividi di catrame grigio essiccato, strade esenti da anime intercambiabili, solo anime infette, segnate dal pungente puzzo del male, macchiate, tatuate dall’inchiostro del demonio, prive d’una metà, d’un corpo, spente. Circondate dal resto della civiltà, il paese addobbato con lucine di natale multicolore, multiforme, serpeggianti le ringhiere scrostate delle modeste case di provincia. Agghindate di dolci suoni polifonici, natalizi. Un contrasto che spaventava.
Era ormai dicembre, e non solo le fabbriche non avevano smesso di produrre, ma anche lei, Giorgia, una prostituta di fama in quel lurido posto dimenticato da Dio.
Giorgia era cresciuta in strada, pizzicata dal lento andirivieni di un trauma ancora troppo lucido per poterselo dimenticare, le ammaccature che il padre le aveva lasciato, indelebili. Ma non lividi, qualcosa di più profondo, baritonale, che non si presentava in superficie ma stava sotto la pelle come un sottomarino sul fondo delle acque. Qualcosa di spaventoso che solo una donna ha il dispiacere di sorbirsi, qualcosa come uno…
«Quanto vuoi?».
Una macchina stava ad un dipresso dal marciapiede sopra il quale sostava, il finestrino abbassato lasciava trapelare la faccia d’un uomo di mezz’età in giacca e cravatta. Lunghi capelli impomatati di gel, incollati sulla superficie cutanea, occhi scuri sul marrone, la pupilla dilatata.
«Cinquanta bocca, cento amore» rispose Giorgia indifferente.
Una ragazza di poco più di trent’anni. Capelli ramati di fuochi autunnali, occhi verdi, due tizzoni ardenti di fiamma smeraldo. Lentiggini sporadiche sparse sulle gote infreddolite dall’inverno.
L’uomo fece un cenno alla ragazza e lei montò in macchina.
I due non parlavano, l’uomo cercò un posto appartato e iniziarono a consumare sesso violento sui sedili dell’auto. L’uomo ansimante, la donna fingente, urla fallacci, grida d’aiuto più che altro. La mente la riportava al giorno che suo padre la stuprò. Faceva quel mestiere da anni ormai, ma quando consumava in macchina, per mestiere e sopravvivenza, non godeva più, odiava. Odiava ardentemente quel maiale di suo padre. Il porco che le tolse la verginità frantumandole l’imene, punzecchiandolo con quel grosso
Coso che era solito togliere dai jeans e sbatterle dentro, proprio lì esatto, nella sua caverna vellutata e puerile, ora consumata e maleodorante. Un trauma che Giorgia non riusciva a dimenticare, quel qualcosa sottopelle, la possibilità di putrefarsi sotto il torchio di quell’orrore.
Era finita a fare la prostituta a causa di suo padre. Tutta quanta la colpa doveva essere addossata a quell’uomo, la maggior parte delle prostitute che conosceva le avevano accennato che erano finite per strada nello stesso identico modo. Stuprate, maltrattate da un uomo. Padre, zio, o cugino non aveva importanza.
«Sei una dea Giorgia, continua Dio mio! Continua puttana! Ti prego non smettere!» urlava l’uomo mentre la infilzava con la sua spada di carne.
Si muoveva solo lui, Giorgia se ne stava ferma a ‘subire’ distratta dagli occhi del pensiero che la riportavano sempre là, su quel letto sporco del suo sangue, il primo dopa la prima esperienza di sesso della sua vita. Suo padre le diceva le stesse cose di quel tizio che la stava scopando, di qualunque bastardo che l’avesse scopata in passato; era una puttana, lo sapeva.
«Ohhh sì mio Dio! Sì!» godette l’uomo, gemendo.
Aveva finito, era venuto. E lei aveva smesso di pensare. Poi si rivestirono, l’uomo la riportò al suo marciapiede e la pagò.
Francesco, un ragazzo di poco più di vent’anni che passeggiava per caso nella zona industriale distrutta dai rumori e dal gelo di dicembre, vide la ragazza smontare dalla macchina, appollaiarsi in posizione fetale sul marciapiede e mettersi la testa tra le braccia, sconfortata da chissà quale angusto motivo. Il che si fermò sopraffatto dalla curiosità, vacillò sul da farsi e preso da un coraggio che non era solito mostrare andò nei pressi di quella che apparentemente sembrava una normale ragazza colle calze tutte rotte.
Giorgia stava singhiozzando, singulti che sfumavano nell’inquinamento acustico delle fabbriche operose, udito solo dall’orecchio più esperto e vicino.
Dopo ogni prestazione piangeva ininterrottamente consumando litri di stille in fila indiana.
«Tutto bene?».
Giorgia alzò lo sguardo nella direzione di quella voce sconosciuta e vi trovò un giovane ragazzo dai capelli arruffati, col sorriso che sembrava intonare una melodia superiore al mugghiare di quelle macchine. Occhi azzurri disegnati a pastello e un apparecchio ai denti che faceva pendant col brillio del suo sguardo slavato, lucido, senza un filo di barba.
La ragazza aveva il trucco sbavato, le traviava il viso, facendola sembrare un mostro; orribile materia indefinita con le lacrime che procedevano a velocità di crociera. Il ragazzo si rabbuiò all’istante. Lei se ne accorse e cercò di asciugarle col dorso della mano.
« Che ti è successo?» le domandò Francesco.
Le mani in tasca, il corpo inturgidito dal solenne soffio del vento dicembrino.
«Cinquanta euro bocca, cento amore.» proferì Giorgia alzandosi all’istante. Tirò su col naso i residui di muco derivanti dalle lacrime; non si sentiva a proprio agio di fronte a quel moccioso, la sua faccia allibita, l’espressione dei suoi occhi, che la scrutavano come nessuno aveva mai fatto.
«Come scusa?».
«Cazzo. Cosa non ti è chiaro ragazzino?».
Francesco si ritrasse d’un passo, spaventato dall’aggressività di quella donna. Le aveva solo fatto una domanda su un concetto che non aveva afferrato. Che voleva dire cinquanta euro bocca, cento amore?
«Cosa significa quello che mi hai appena detto».
«Vuoi o non vuoi scoparmi».
«No che non voglio, perché dovrei farlo? Neanche ti conosco».
Giorgia si ritrasse, spaventata; nessuno le aveva mai detto una cosa del genere. Mai nessuno aveva rifiutato una scopata con lei. Che razza di finocchietto era quello?
«Non sei qui per…».
«Ah ho capito.» la interruppe il ragazzo sorridendo «È una Candid Camera? Uno spasso, non sono mai stato in TV. Dove stanno le te…».
«Non può essere» pensò la ragazza. «Questo crede di essere in TV. Sa almeno che sono una prostituta? Cazzo, questo tizio sta fuori. Gli è bruciato il cervello. Santo iddio è scoppiato».
« … perché mamma dice che le persone che vanno in TV diventano famose e io, beh… lo sarò giusto?» ridacchiò, lo sguardo di Giorgia traballava incuriosito, attonito «Non ci posso credere. È fantastico! È… è…».
« Fermati The Truman show. Sono una prostituta.» lo interruppe.
Francesco prese ad ammiccare sbalordito.
« Scusa io…».
«Cazzo! Non devi scusarti, può succedere. Ora perché non te ne vai? Devo lavorare.»
Il ragazzo annui e scacciò tutta la sua positività lasciandola scivolare sui tetti grigi delle fabbriche, ad un dipresso del cielo, sperando che il sole potesse coglierla da dietro le nuvole e buttare su quel posto un giorno migliore. Ma quella zona starnazzante e pallida sarebbe rimasta sempre d’un pallore dipinto di grigio. Non c’era soluzione.
«Cazzo, dev’essersi offeso pensò Giorgia. Che t’importa, devi lavorare. Smetti di comportarti in quel modo e trascina quelle tue chiappe flaccide sul marciapiede, dove dovrebbero stare rifletté guardano la camminata del giovane ma è anche vero che s’è avvicinato a me e mi ha chiesto se andasse tutto bene. Oh, ‘fanculo Giorgia!».
«Ehi aspetta!» urlò Giorgia «Dico a te ragazzino aspetta! Torna qui!».
Francesco si voltò a guardarla, senza muoversi, poi vedendola muovere l’indice in versione ‘andiamo, non voglio farti del male’, la raggiunse abbozzando un sorriso.
«Vuoi sapere perché piangevo ragazzino?».
Francesco annui.
«La Legge Merlin!» proferì la ragazza accendendosi una sigaretta, aspirando «La chiusura delle case chiuse non ha abrogato la prostituzione, l’ha solo resa illegale. Sai, faccio questo lavoro da troppi anni ormai. Ho subito un torto quando era solo una bambina e mi sono ritrovata a scappare di casa quando ero una giovincella proprio come te! Senza un soldo, né una casa dove stare, e chiedendo aiuto ma ognuno di loro» spostò lo sguardo a destra e a manca per segnare i bastardi che avevano rifiutato di darle sussidio «se n’è sbattuto di me».
Aspirò, la punta della sigaretta era incandescente, cenere arancione che illuminava il grigiore di quel posto; Francesco pendeva da quella nota ardente, incantato, amorfo.
«Così oggi sono fuori al freddo a battere senza un controllo, rischiando malattie e di essere uccisa.» continuò Giorgia. «Se lavorassi al chiuso, se fossi controllata e il governo prendesse atto che legalizzare la prostituzione sarebbe cosa buona, che aiuterebbe non solo ad individuare i casi di sfruttamento ma anche combatterli, noi prostitute avremmo una vita più dignitosa, pagheremmo tasse e lavoreremmo come persone normali, comuni. Forse non saremmo più viste come mostri. Che il Destino ha scelto questo per me, e cazzo non ho mai avuto la possibilità di studiare o di conoscere altri lavori».
Buttò la sigaretta che s’era consumata mentre agitava le mani in segno di diniego, atti non verbali contro lo stato, cane, come quel maiale di suo padre che l’aveva costretta alla strada senza rendersene conto. Ora quel porco stava sotto chili e chili di terra al cimitero di quel paese maledetto dalla quale se n’era andata per sempre.
«Cavoli quindi abolire o cambiare i connotati alla Legge Merlin sarebbe buona cosa?».
Quel ragazzino sembrava poco sveglio, ma sapeva il fatto suo.
«Forse un verginello senza amici» pensò Giorgia. «Forse vuole solo farmelo credere. Cazzo, è un vero peccato stare a guardarlo e non poter far nulla. Devo pensare a salvarmi, come posso permettermi di stare a salvare anche questo ragazzino?»
«Esatto! Non solo potrei pagare le tasse ed avere un posto al caldo nel quale lavorare, ma anche, in un futuro prossimo, avere una pensione.» si accese un’altra sigaretta «E se uno qualunque si permettesse di maltrattarmi potrei persino denunciarlo, consapevole di poterlo fare.
«La maggior parte di noi puttane della strada ha paura» aggiunse «compresa la sottoscritta. Se andassi dalla polizia questa mi prenderebbe a calci nel culo».
Il ragazzino rabbrividì su quella parte di frase. Prendere a calci nel culo sarebbe stata una brutta cosa. Sua madre diceva sempre che mettere le mani addosso a qualcuno è sbagliato, in ogni caso. Meglio parlare, diceva.
«Che c’è ragazzino? Mi guardi strana».
Francesco scosse la testa e sorrise.
«Strano» pensò Giorgia. «È strano forte. Prima ride poi si fa serio, poi spaventato, poi ancora ride. Questo tizio è fuori».
«Dov’ero… » aspirò altro fumo riflettendo «Sì, ecco. La polizia direbbe «signora se non vuole essere rapinata lei non deve star in quel posto a lavorare», e cazzo mi beccherei pure una multa… e una bella denuncia. Se si legalizzasse la prostituzione la tratta e i criminali verrebbero abbattuti. Capisci?
Il ragazzo annui. Il vento iniziava ad ululare, piccoli residui di ghiaccio erano sparsi sporadici sui cigli delle strade, silenziosi, infreddoliti dalla loro stessa temperatura. Vibranti al rumore che continuava a gridare come un pazzo in manicomio stretto dalla camicia di forza, che si spacca la testa contro le pareti bianche rinforzate.
«Ma non ti piacerebbe fare altro? Che so, la cameriera, la lavapiatti, la barista. A me sembra che la prostituzione offenda la dignità della donna».
Giorgia tirò la sigaretta e la schiacciò sotto i tacchi.
«Sarà suonato ma sa pensare».
«Forse è così ragazzino, ma io non ho alcun titolo di studio, sono cresciuta in strada. E sì, forse mi piacerebbe fare quei lavori, ma la verità è che non ne ho il coraggio. I soldi che guadagno mi permettono di vivere, ho un buon giro di clienti e molto tempo libero; fatti circa cinquecento euro al giorno me ne torno nel mio appartamento e mi dedico alle mie passioni, vorrei viaggiare».
Francesco sorrise. La donna s’interruppe incuriosita.
I loro occhi sembravano animali in cerca di sesso, attratti da una specie di forza che andava oltre l’aspetto fisico, era più un rapporto orale derivante dalla psiche, magico.
«Che hai da sghignazzare?».
L’apparecchio ammiccava di luce nascosta, limpido. E col un cenno del capo le fece cenno di continuare.
«Le donne si fidanzano e si sposano, fanno figli. Offrono servizi sessuali all’uomo da secoli, volenti o nolenti. Sempre cercando di soddisfare le pretese per amore. Forse quelle che perdono veramente la dignità sono le ragazzine che per fare carriera la danno gratis. Noi ci facciamo pagare, almeno».
«Se la Legge Merlin» aggiunse «venisse abolita, credo che questo lavoro mi piacerebbe. Il guadagno non è affatto male, ma anche quello dipende dai giorni, però starei al caldo perlomeno. Avrei diritto alle ferie come una persona qualunque e magari riuscirei a viaggiare, capisci?».
Il ragazzo la fissava con aria presente, aveva capito sì, almeno un po’, tra i TG, e sua madre, e quella prostituta qualcosa era riuscito ad entrargli in testa. Certo, avrebbe voluto sapere che tipo di torto avesse subito da piccola, il tipo di torto che l’avesse costretta a sgattaiolare fuori di casa come un ladro dopo il furto, ma pensava che andasse bene così. S’era già confidata fin troppo con lui. Dopotutto era una sconosciuta, una sconosciuta incazzata che aveva i suoi ideali. Chi non avrebbe desiderato di stare in una stanza al caldo a fare l’amore? Quel postaccio rumoroso era l’inferno.
«E tu ragazzino che ci fai da queste parti? Non è un posto per quelli come te».
«Perché, che ho che non va?».
«Tutto quanto» pensò Giorgia. «Sei strampalato, indossi quella ferraglia tra i denti e sembri sempre assopito in chissà quale mondo del cazzo. Però mi hai aiutato. Hai parlato con me. Era da un pezzo che qualcuno non mi ascoltava come hai fatto tu oggi, tutti quanti pensano solo a scoparmi, e ancora scoparmi».
La prostituta sorrise. Per la prima volta Francesco vide quella donna scucire le labbra in un sorriso. Giorgia scosse la testa.
«Nulla. Sei apposto così».
Francesco guardò l’ora. Era veramente tardi. Suo padre lo aspettava a casa, gli aveva promesso che l’avrebbe aiutato a sistemare le tegole del tetto. Da tempo ormai, ogni volta che pioveva, casa veniva inondata da pozzanghere d’acqua terribili.
«Cavolo è tardissimo. Devo andare ad aiutare il mio babbo ad aggiustare il tetto».
Giorgia lo guardò, posò il suo sguardo sugli occhi azzurri di quel ragazzino suonato. Lo contemplò per qualche secondo e poi, come se fosse uscita dall’ipnosi di qualche illusionista, si avvicinò a lui e gli stampò un bacio sulla guancia.
«Grazie ragazzino. È stato bello parlare con te oggi».
Francesco si tastò la guancia e gli zigomi gli diventarono rossi all’istante. Imbarazzato com’era, impacciato nella sua inesperienza nell’ambito di baci, di grazie. Preso di mira, a scuola così come dalla vita, e pensò fosse il suo giorno fortunato, quello che ti si presenta quando meno te l’aspetti, quando visiti un luogo che non visiti mai e l’accantoni nell’angolino delle cose da dimenticare solo perché sembra spaventoso. Quel giorno in cui una donna ti regala un bacio, uno insolito, diverso da quelli che tua madre ti stampa in fronte prima che t’appresti a raggiungere il bus, un premio per essere stato d’aiuto.
«N-non ho fatto altro che ascoltare» proferì intimidito collo sguardo basso «Mai nessuna mi aveva baciato prima di ora. S-sei stata la prima. Cavolo! Non è che sono in TV?».
Giorgia sorrise.
«No The Truman Show. Hai appena assaggiato la realtà». si accese una sigaretta «Torna a trovarmi qualche volta. Non credo che la Legge Merlin verrà abolita mai».
Giorgia sorrise ma era un sorriso triste. Ammantato di stanchezza, distrutto dal trauma, cancellato dallo stato, reso inespressivo da suo padre. E Francesco fece di conseguenza, ma pure lui capì che quello non era un sorriso. Era solo un travestimento, una maschera da clown col naso rosso, il rossetto sbavato e la matita che colava dalle ciglia.
«Cavolo ci puoi scommettere!».
Il fumo aleggiava lento nell’atmosfera e pian piano ne diventava parte, sfumava sui due come una coltre fina fatta d’amore e segreti, resa invincibile da un legame tra sconosciuti e le strade esenti d’animo della zona industriale si trasformarono, solo per quell’attimo, in corpi lustri e limpidi. Trasparenti all’occhio nudo, nudi, d’intimità, spazzavano il mugghiare delle fabbriche ed il grigiore dei cieli e poi svanì.
Francesco rimase a fissarla ancora per un po’ e poi tornò sulla sua strada, era ora di ritornare a casa, suo padre lo stava aspettando e lei, senza che lui se ne accorgesse, gli stette addosso collo sguardo fino all’ultimo, fino a quando sparì nei colori delle lucine intermittenti, nella parte di paese felice, quella senza rumori, definita dal confortante chiacchiericcio della gente.

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