Raccontami una storia logo

Riassunto (Valentina Nastasi)

Sono in anticipo. Il corridoio lungo e chiaro mi accoglie caldo, fin troppo caldo, come al solito.
Mi levo il cappotto e la sciarpa, mi schiarisco leggermente la voce, ma piano piano, perché ho sempre paura di attirare l’attenzione di qualcuno dietro le silenziose porte che adornano le pareti.
Guardo l’orologio: manca poco più di un minuto. Sono ormai mesi che non mi faccio vedere, ma non mi sembra passato neanche un giorno dall’ultima volta.
L’uscio di fronte a me si apre, qualcuno esce, io abbasso la testa come ogni volta per evitare di incrociare lo sguardo di quell’individuo che ho timore di mettere in difficoltà: magari lui si vergogna ad essere qui ed ha paura di essere riconosciuto. Ma io non voglio vedere la sua faccia, forse potrebbe interessarmi la sua storia, ma rimango distante perché non posso fare niente altro, e lui (o forse lei) mi sfila accanto come un’ombra scura ai margini del mio campo visivo.

E nel frattempo entro. Sorrisi di saluto: sinceri i miei, probabilmente di circostanza i suoi. Ma mi piacciono comunque, credo che abbia studiato anche per saper rassicurare i clienti così.
Mi guardo attorno e non è cambiato niente dall’ultima volta: il divanetto parzialmente in pelle, il tappeto un po’ vecchio, le luci mal disposte, l’aria leggermente profumata e i colori sbiaditi dell’arredamento che mi lasciano sempre addosso una piacevole sensazione di neutralità, di non colpevolezza, di porto sicuro, seppur di passaggio. L’unica cosa che mi continua a disturbare dopo tutti questi anni sono quelle cornici alle pareti, così piene di parole scomode che mi ricordano il vero perché del mio essere qui.
Qui, su questo divano grigiastro, che sembro accarezzare con i palmi delle mani come se fosse mio, ma su cui in realtà uso le dita come ancore per stoffa mentre sento già più caldo di prima al pensiero di quanto sta per accadere.

«Non ci vediamo da un po’!»
Annuisco, sorrido, mento.
«Lo so, mi dispiace, sono stato via spesso e ho avuto molti impegni e… Adesso ho molte cose da raccontarti.»
Lei annuisce, probabilmente intuisce le mie bugie: non avevo i soldi per pagarla, ma non è abbastanza dignitoso da dire a voce alta.
Si mette comoda, incrocia le gambe, mi guarda incoraggiante.
«Raccontami allora.»
Io annuisco, apro la bocca, e taccio.
La richiudo, guardo altrove perché i suoi occhi addosso mi mettono ancora a disagio, nonostante tutto il tempo trascorso insieme. Respiro, mi prendo il mio tempo, ripetendomi quel mantra che faccio fatica a ricordare, e cioè che lei mi ascolta, ascolta le mie parole ed ascolta i miei silenzi, perché è il suo lavoro.
Cerco di mettermi più comodo anche io sul divanetto quasi in pelle dell’Ikea a basso costo, dall’insipido colore incapace di soverchiarmi i pensieri.

Nonostante ciò, ho bisogno di chiudere gli occhi. Senza che lei me lo ripeta, so già che devo respirare profondamente e concentrarmi su quello che provo, cercare di capire perché lo provo, perché è lì dentro di me.
Inspiro, espiro.
Penso a tutte le volte che l’ho fatto negli ultimi mesi, a tutte le volte che sono stato costretto a farlo negli anni, a tutte le volte che dovrò farlo per il resto della mia vita.
Inspiro, espiro.
Ogni volta provare qualcosa di enorme ed insensato e ingoiarlo intero, per poi violentarmi e scavare e cercare di capire il perché di quel dolore, il perché di quella rabbia, il perché di quella voglia di morire.
Inspiro, espiro.
Espiro forte, espiro a fondo, riapro gli occhi e la fisso:
«Facciamo che ti faccio un riassunto».
Lei annuisce, come sempre.

Richiudo gli occhi per un istante, li riapro, batto le palpebre, mi sento all’improvviso confuso, stringo i pugni sulle mie ginocchia: e percepisco tutto, tutto insieme, ogni movimento che sto compiendo, ogni piega della pelle, ogni grattare della coscienza. Mi fisso a guardare le sue mani calme, in placida attesa, e non ho il coraggio di sollevare lo sguardo sul suo volto.
«Io credo che tutto questo sia sbagliato, ma me lo sto facendo andare bene. Credo di aver trovato un equilibrio, nonostante tutto ciò che è successo, nonostante tutto quello che mi passa per la testa.
Mi sento più stabile e credo che questa mia sensazione derivi dal fatto che tutto quello che poteva crollare è ormai crollato e io non sono più in bilico su niente semplicemente perché non c’è più niente sotto di me.
Sono a terra, sono con i miei piedi a terra, su quella terra che nessuno dovrebbe mai calpestare. Ed invece alcuni ci camminano sopra, ma solo perché è l’unico posto dove sono riusciti ad arrivare, perché tutto l’altrove gli è sfuggito dalle mani. Sono forse inetti, forse pigri, forse masochisti, questo non lo so, probabilmente lo sono anche io, ma nella mia stabilità attuale voglio pensare che non sia colpa mia. Che non sia solo colpa mia. Se ho perso tutte queste occasioni, tutte queste persone, tutto questo tempo. Che anche se ci ho messo dentro ogni fibra di me stesso, tutto quanto è andato a puttane, ed io sono ancora qui, di fronte a te, a cercare un perché ai miei traumi, alle mie perdite, alle mie mancanze, che ogni giorno mi tolgono l’aria dai polmoni e mi fanno desiderare di morire.

Lo so, so che non dovrei, e mi vergogno a dirlo anche se meno che in passato, ma voglio morire. Voglio morire anche quando tutto sembra andare liscio, anche quando non è successo niente, mi sveglio la mattina e decido che quello sarebbe il giorno giusto per morire, perché i miei incubi sono andati oltre ed io non so più come analizzare a fondo la sofferenza che mi danno.
Ma io non voglio morire, perché morire è abbandonare, morire è lasciare la presa, e non sono mai stato bravo a lasciare andare. Io desidero con tutto me stesso allontanarmi dal mondo degli umani senza fare danni intorno a me. Voglio scomparire da un giorno all’altro e vorrei che tutte le persone che ho attorno fossero colpite da amnesia. Che qualcuno entrasse nella mia stanza e trovasse tutte le mie cose e si chiedesse come ci sono finite lì, pensando che si tratti di una candid-camera. Voglio sbriciolarmi ed essere soffiato via perché tanto la maggior parte di me si è già sbriciolata e io sono fottutamente stanco di tenere tutti i pezzi insieme solo perché devo.

Perché devo? E’ questo ciò che mi chiedo. Non perché sono nato, non perché esisto, non quale sia il mio scopo nel mondo. So già di non averlo. Nessuno di noi lo ha. Siamo animali troppo intelligenti per vivere sereni nella natura, dovremmo pensare a sopravvivere come possiamo, e invece ci siamo fissati con questa cosa della vita sociale, con questa cosa del lavorare, con questa cosa che bisogna fare cose per essere un essere umano vero. Ma io non voglio più fare un cazzo, perché tanto non ci riesco. Io sono già un essere umano e non capisco tutto quello che mi viene chiesto, tutto quello che il mondo pretende da me.
Ma in fondo mi andrebbe bene perché so che le cose devono andare così e non sarò di certo io a cambiare la vita. Vorrei però non dover fingere, non dover sempre sforzarmi di sorridere, non dover dire che ho mal di testa perché è la stagione dei pollini, che ho mal di stomaco perché ho bevuto troppo, che non respiro perché soffro d’asma, non voglio più mentire perché gli altri potrebbero escludermi o compatirmi. Io voglio guarire da tutto e subito, e dimenticare ogni goccia di angoscia che mi porto addosso ogni giorno, dimenticare la voglia di ammazzarmi, dimenticare il terrore cupo che mi si infila sotto la pelle senza che io possa fare niente che non sia ripetermi che andrà tutto bene e che passerà. Che passerà anche stavolta, che passerà per l’ennesima volta.
E se non posso guarire, voglio smettere di prendermi per il culo, di prendere per il culo chi mi sta intorno, persino le persone che amo, perché se mi sento soffocare è perché sono in preda al panico, perché se mi viene da vomitare è un attacco d’ansia, perché se non voglio alzarmi dal letto nemmeno per lavarmi la faccia è un picco depressivo, ed io voglio, io pretendo, che gli altri lo sappiano, che la smettano di trattarmi come se stessi bene o come se stessi per morire, senza vie di mezzo.

É questo quello che voglio: una fottuta via di mezzo. Perché io non sono malato come quelli che non possono camminare, come quelli che vanno in giro col cane-guida, come quelli che si imbottiscono di pillole tutto il giorno, perché io sono fortunato, e continuo a ripetermelo, ma perché allora non sono sano? Perché per uscire di casa devo combattere contro la tachicardia, perché per inviare una mail devo controllare i tremori, perché se voglio bene a qualcuno devo sentirmi tutto quel cazzo che c’è dentro il mio stomaco, dentro la mia pancia, smembrato e contorto? Perché se sono sano devo avere tutta questa paura di perdere il controllo, di perdere me stesso, di perdere gli altri, di perdere l’orientamento, di perdere? Di perdere… Tanto da perdere il respiro.

Dimmelo tu, tu che fai questo lavoro e chissà quanta gente come me vedi da anni, dimmelo tu come fare a convivere ogni giorno con tutto questo, e come farlo continuando a vivere come tutti gli altri, facendo finta che ogni cosa vada bene dentro di me, sempre. Perché altrimenti nel mondo non ci sarebbe spazio per quello che sono, più di quanto già non ce ne sia.
Dimmelo tu se è giusto che io mi senta stabile solo perché sono affondato fin dove potevo e da qui non posso più scendere, ma nemmeno salire, e quindi mi sono solo abituato a tutto questo, dimmelo, è così che deve andare? É così che devo rassegnarmi a sopravvivere?
Se tu mi dirai di sì, io ci proverò. Semplicemente perché non posso fare nient’altro».

Le parole mi muoiono in gola perché ho finito la voce. Mi accorgo solo ora di aver alzato lo sguardo su di lei, di aver alzato il tono, di aver alzato il culo dal divanetto in quasi pelle e di essermi levato la giacca, lasciandola cadere a terra, e di avere caldo nonostante la camicia leggera, di sentirmi caldo, di sentirmi arrabbiato, ma anche definitivamente disperato.
Deglutisco, mi risiedo composto, prendendomi il volto fra le mani per la vergogna.

La voce della mia psicologa mi arriva flebile, ma chiara nel silenzio improvviso del suo studio:
«Io non lo so».

Valentina Nastasi

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