Roma brucia. Nerone accusa i cristiani

Il 18 luglio del 64 d.c a Roma scoppia un incendio che durerà giorni e devasterà la città. Tradizionalmente verrà attribuito all’imperatore Nerone, il quale all’epoca dà la colpa ai cristiani.

Mappa della città di Roma, divisa da Augusto in 14 regiones, affidate a sette coorti di vigili, ciascuna posta in una caserma (pallini rossi).

L’incendio scoppiò la notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 (ante diem XV Kalendas Augustas, anno DCCCXVII a.U.c.) nella zona del Circo Massimo e secondo gli storici romani Tacito e Svetonio infuriò per sei giorni, propagandosi in quasi tutta la città. Il primo incendio durò per sei giorni e poi continuò per altri tre nel solo Campo Marzio. Il 27 luglio tutto era terminato. Qui di seguito un estratto di Tacito, nei suoi Annali, riguardo l’incendio:

«Ebbe inizio in quella parte del circo vicina al Palatino e al Celio; qui attraverso le botteghe che contenevano merci combustibili, il fuoco appena acceso e subito rafforzato e sospinto dal vento si propagò rapidamente per tutta la lunghezza del circo. Non vi erano infatti né case con recinti di protezione né templi circondati da muri, né alcun altro impedimento; si diffuse impetuoso nelle zone pianeggianti, salì nelle parti alte, poi tornò a scendere in basso, distruggendo ogni cosa, precedendo i rimedi con la velocità del flagello.»

Delle quattordici regioni (quartieri) che componevano la città, tre (la III, Iside e Serapis, attuale colle Oppio, la XI, Circo Massimo, e la X, Palatino) furono totalmente distrutte, mentre in altre sette rimanevano solo pochi ruderi rovinati dal fuoco. Erano salve solo le regiones: I Capena, V Esquiliae, VI Alta Semita e XIV Transtiberim. I morti furono migliaia e circa duecentomila i senzatetto. Numerosi edifici pubblici e monumenti andarono distrutti, insieme a circa 4.000 insulae e 132 domus. Gli scavi archeologici hanno rinvenuto anche frammenti di arredi metallici parzialmente fusi, a riprova della violenza delle fiamme e delle elevatissime temperature raggiunte.

Lo spegnimento degli incendi era assicurato a Roma da un corpo di sette coorti di vigiles, che si occupavano tuttavia anche di ordine pubblico. Le coorti dei vigili erano dislocate, con caserme e posti di guardia (excubitoria), in ciascuna delle quattordici regioni augustee. Lo spegnimento degli incendi era tuttavia ostacolato dalla ristrettezza degli spazi di manovra e dalla difficoltà di portare rapidamente l’acqua dove serviva.

L’allora imperatore Nerone, che si trovava ad Anzio, sarebbe tornato in città quando le fiamme ormai lambivano la Domus Transitoria, la residenza che aveva costruito per congiungere i palazzi del Palatino agli Horti Maecenatis, e non sarebbe riuscito a salvarla. Si sarebbe occupato di soccorrere i senzatetto, aprendo i monumenti del Campo Marzio – il Pantheon, le terme e i giardini di Agrippa, la Porticus Vipsania e i Saepta Iulia – allestendovi dei baraccamenti e facendo arrivare i viveri dai dintorni. Il prezzo del grano sarebbe stato inoltre abbassato a tre sesterzi il moggio. Tali provvedimenti, emessi secondo Tacito per ottenere il favore popolare, non avrebbero tuttavia ottenuto lo scopo, a causa della diffusione di una voce secondo la quale l’imperatore si era messo a cantare della caduta di Troia, davanti all’infuriare dell’incendio visibile dal suo palazzo.

Tacito scrive che per via delle crescenti voci su un suo coinvolgimento nello scoppio dell’incendio, Nerone decise di accusare i seguaci del Cristianesimo, che Tacito descrive come «una setta invisa a tutti per le loro nefandezze». Secondo lo storico, prima sarebbero stati arrestati quanti confessavano e quindi, su denuncia di questi, ne sarebbero stati condannati moltissimi, ma, ritiene Tacito, non tanto a causa del crimine dell’incendio, quanto per il loro “odio del genere umano“.

Lo storico Svetonio nella sua opera sui primi imperatori (De vita Caesarum, anche conosciuta con il titolo italiano di “Vite dei dodici Cesari”), nella vita dedicata a Nerone, ci offre un breve resoconto dell’incendio, molto meno neutrale a riguardo, e fortemente ostile verso Nerone: Svetonio lo accusa direttamente infatti di aver incendiato la città, in quanto disgustato dalla bruttezza degli antichi edifici e dalle vie strette.

Nella monumentale Storia di Roma scritta da Cassio Dione agli inizi del III secolo, i libri che trattano del regno di Nerone ci sono giunti soltanto in una epitome (riassunto), compilata dal monaco bizantino Giovanni Xiphilinus nell’XI secolo. Anche in questo caso la responsabilità dell’incendio è attribuita direttamente a Nerone. Plinio il Vecchio, descrivendo l’età di alcuni alberi, disse che durarono fino al tempo dell’incendio dell’imperatore Nerone (ad Neronis principis incendia), sembrando attribuire anch’egli la colpa a quest’ultimo. Dell’incendio parla anche Eutropio, che riprende probabilmente come fonti Tacito e Svetonio e attribuisce la colpa all’imperatore per il suo desiderio di vedere uno spettacolo come quello dell’incendio di Troia.

La moderna storiografia tiene conto del carattere ostile all’imperatore di molte fonti storiche, che valuta con più scetticismo. Gli autori citati appartengono infatti per la maggiore parte all’aristocrazia senatoria, contraria alla politica di Nerone, che favoriva invece i ceti popolari e produttivi. Di conseguenza la storiografia moderna riguardo la questione della responsabilità dell’incendio è molto divisa. In alternativa alla versione tradizionale, una parte della moderna storiografia, in particolare lo storico Gerhard Baudy, riprendendo tesi elaborate in precedenza da Carlo Pascal e Léon Herrmann, ha esposto l’ipotesi secondo la quale furono effettivamente i cristiani ad appiccare volontariamente fuoco a Roma, allo scopo di dare seguito ad una profezia apocalittica egiziana, secondo cui il sorgere di Sirio, la stella del Canis Major, avrebbe indicato la caduta della grande malvagia città. Recentemente uno studioso italiano, Dimitri Landeschi, attraverso una accurata ricostruzione storica dei drammatici avvenimenti che si svolsero a Roma negli anni 64 e 65 d.C., ha avanzato l’ipotesi che ad incendiare Roma non fosse stato Nerone ma, con ogni probabilità, un pugno di fanatici appartenenti alla frangia più estremista della comunità cristiana di Roma, con la complicità morale di taluni ambienti dell’aristocrazia senatoria, in mezzo a cui si celavano i veri ispiratori di quella scellerata operazione. Landeschi, nel formulare la sua ipotesi, riprende e sviluppa tesi analoghe avanzate in passato da storici quali Carlo Pascal, Gerhard Baudy e Giuseppe Caiati.

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