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Solo una bambina (Renata di Sano)

Questa è una storia in cui non succede niente.
Niente dalla mattina alla sera.
Non una guerra, non un bacio e nemmeno un temporale all’improvviso.
È la storia di una giornata che comincia e finisce con la sabbia e forse non interessa a nessuno. È la storia semplice di una bambina che sa solo come è fatto il deserto, perché ci è nata, e pensa che quello sia il mondo: un grande tappeto di polvere. Un posto dove l’acqua da bere e il mestiere di vivere sono la stessa cosa.
Il suo nome è Saam-bui. Non sa come si scrive, ma sa che vuol dire “uccello d’acqua”. L’ha detto suo padre e le ha spiegato anche che si tratta di un uccello speciale, perché con il suo volo fatto di tuffi indica alla gente del villaggio il percorso dell’acqua.
Forse è perché si chiama così che anche Saam-bui deve andare ogni giorno fino al pozzo. Le tocca camminare a lungo prima di arrivarci, attraverso strade sempre uguali di sabbia e sabbia. Per mantenere il catino in equilibrio sulla testa, per bilanciarne la spinta verso il basso, lo sguardo deve essere rivolto a terra, sempre a terra, sotto il peso dell’acqua. Le braccia stanno tirate su, a sostenere il recipiente nei fianchi, le mani lo reggono fermo, le spalle accompagnano il ritmo dei passi, il corpo intero si culla in oscillazioni calcolate. Basta non alzare la testa. Ogni mattina è così: sabbia, solo sabbia, e le sue dita dei piedi che si danno il cambio ad ogni passo, non vede altro tutto il tempo.
È per questo che Saam-bui non distingue le donne a cui deve andar dietro. Un’intera famiglia di donne in fila, fantasmi che non riconosce, perché non sono che lingue di tessuto svolazzanti, polpacci intravisti appena, lembi di sottane colorate, e piedi, e talloni nascosti, stoffe che ondeggiano, una caviglia che scompare e riappare, ma forse non è già più quella di prima. Ecco di nuovo l’orlo rosso e giallo di una gonna che va e viene davanti a lei, davanti ai suoi occhi inchiodati a terra per forza. Segue passi, segni che altre hanno lasciato nella sabbia calpestata, per non perdersi. Come un cucciolo che fiuta la traccia, ha imparato a procedere a testa bassa, nella striscia di impronte femminili che si susseguono e si sovrappongono, grandi e piccole, fino al pozzo. È quella, per lei, la strada dell’acqua, ombre di piedi andati via.
Saam-bui trasporta un vaso ricolmo, quasi più alto di lei. Non può voltarsi, chinarsi, girarsi, non può cantare e nemmeno sospirare, per non distrarsi. Il collo bloccato, il mento incollato sul petto, la nuca irrigidita, sempre nella stessa posizione, leggermente inclinata, per rendere più stabile l’ingombro che la schiaccia dall’alto. È così quando va in cerca dell’acqua, non le resta che guardare in terra. Mai sollevare lo sguardo.
Non le piace essere costretta a camminare a testa china. Si sente un tutt’uno col catino, non una bambina, ma solo un catino pieno d’acqua che cammina, senza occhi, senza bocca, senza orecchie. Anche le sue mani non appartengono a lei, ma al recipiente sgangherato sopra di lei. Il resto è sabbia, arida terra, questo l’universo alla sua altezza. E anche se passasse veramente, lassù in alto, o nell’acqua fonda, l’uccello speciale che porta il suo nome, lei non potrebbe salutarlo con la mano, chiamarlo, neanche buttarci un occhio, neanche vedere com’è fatto un uccello d’acqua. Perché non può alzare la testa.

Questo pensava Saam-bui quella mattina, di ritorno dal pozzo. Pensava all’uccello che si chiamava come lei, che non era un pesce perché sapeva volare nel cielo e non era un uccello perché sapeva nuotare nell’acqua. Era due animali insieme, pesce e uccello contemporaneamente, non un secchio a forma di bambina come lei, che faticava tanto per un sorso d’acqua e non sapeva nuotare né volare.
Questo pensava Saam-bui quella mattina, che le sarebbe piaciuto volare nel cielo come un uccello, volare nell’aria colorata dal sole appena nato, muovere le ali, le sue piume leggere, attraverso le nuvole chiare chiamare le donne laggiù, cariche d’acqua: guardatemi, sono quassù, perché non alzate la testa?
Questo pensava Saam-bui quella mattina, che le sarebbe piaciuto nuotare come un pesce nell’acqua fresca e trasparente, tanta acqua, tantissima, un pozzo grande come il deserto, attraverso gli spruzzi gridare alle donne curve sotto i loro fardelli: venite, sono qui, guardate quanta acqua c’è, perché non alzate la testa?

Questo pensa Saam-bui camminando per ore con gli occhi fissi a terra: perché non alzare la testa.
E’ colpa dei pensieri se perde il controllo del carico.
Tutto comincia con un piccolo sussulto dell’acqua nel vaso, forse un soffio del vento, una goccia fugge via. Lei trattiene il respiro e aspetta. Il piede destro continua per conto suo, il sinistro rimane perplesso. La testa ondeggia a cercare il suo posto, il suo solito posto, ripiegata in basso di fretta, ma il gesto è fuori misura, un’altra goccia scivola sul collo. Le spalle indugiano, rallentano prima del tempo, ancora una goccia si perde e il piede vacilla, la gamba si sposta quando non deve, tre gocce, il bacino cede, si sbilancia all’indietro, non basta, non basta il colpo di schiena per rimettersi dritta, l’acqua si è fatta pesante, troppo più pesante di lei. Si oppone, la piccola, alla scossa del secchio, ma poi alla fine lo molla, quel recipiente scivoloso che tira, che vuole trascinarla per terra, è troppo più forte di lei. Non ha il tempo di reagire e quello sta là, ai suoi piedi.
Non ce l’ha più addosso e lì per lì si sente leggera, svuotata lei stessa. Vede il liquido scorrere dal catino rovesciato, zampilla fuori veloce, più veloce di quando ci è entrato, direttamente nella polvere, subito bevuto dal deserto assetato. Si china, le mani si affannano a raccogliere in fretta quel poco che resta, ma è solo sabbia bagnata.
Ora capisce, Saam-bui. Guarda il vaso come fosse lei, lei stessa caduta per terra, col sangue che sgorga dalla ferita. Non può rimediare, solo aspettare che passi il dolore, neanche piangere, sarebbe altra acqua perduta, buttata via in un capriccio.
Però può alzare la testa.
Ora finalmente può alzare la testa, sollevare lo sguardo verso il cielo, lassù in alto, dove vola un uccello speciale, l’uccello che porta il suo nome in giro per il mondo, che nuota tra le nuvole e vola tra le onde. Esiste davvero e conosce il posto dell’acqua, la sua voce è un canto dolce che la chiama, che chiama proprio lei: «Saam-bui, Saam-bui!».
Sua madre si ferma, torna indietro e la raggiunge.
«Mamma, l’ho visto! Finalmente ho visto l’uccello che si chiama come me!»
La donna le sorride perché, non si sa come, le mamme capiscono sempre tutto. Basta alzare la testa. E guardarsi negli occhi.

Renata di Sano

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