EDITORIALE
La parola individualità entra nell’uso comune inglese solo all’inizio del XVII secolo, esattamente quando un anonimo pittore dipinge il doppio ritratto The Cholmondeley Ladies (1600 – 1610 c.a), probabilmente il più enigmatico e inquietante tra i dipinti conservati alla Tate Britain di Londra. Raffigura due giovani donne sedute su un letto, vestite in abiti bianchi di pizzo, ciascuna con in braccio un neonato: apparentemente identiche, l’incongruenza dei loro volti, come quella dei bambini e delle loro vesti, ingaggia i nostri occhi in un ping pong visivo tra una figura e l’altra: occhi azzurri, occhi castani, collana con fermagli d’oro, collana con perle rosse, naso a punta, naso arrotondato, gorgiere e copricapi di pizzo dai disegni diversi, damasco dei vestiti leggermente differente, e anche con i bambini è la stessa cosa. In aperto contrasto con la bidimensionalità prospettica che vorrebbe appiattire l’immagine, le due figure richiedono prepotentemente la nostra attenzione, come se avessero infilato il volto in uno di quei cartonati dei parchi giochi che ci trasformano in orso e ballerina, in principi e principesse o in eroi di fantascienza. La doppiezza delle sorelle Cholmondeley non è parità, e per questo il loro ritratto resta memorabile, perché promette le soddisfazioni estetiche dell’equilibrio, ma in realtà suscita la tensione della dualità, e ogni volta che il nostro occhio si sposta su una figura, la presenza periferica dell’altra è ansiosa di intromettersi nel nostro campo visivo.
La simmetria è cablata nel cervello umano, ossia registriamo le caratteristiche simmetriche nel nostro campo visivo prima di renderci conto di ciò che stiamo guardando, e probabilmente questa percezione ha una base evolutiva; tuttavia, la simmetria modella anche ampie aree del nostro universo esperienziale e cognitivo, per non parlare dei binari simmetrici che strutturano quasi ogni sistema di pensiero. In quest’ottica, è molto interessante, e forse un po’ ironico, che un dipinto del XVII secolo possa essere un buon esercizio alla percezione delle differenze.
In questa centottantatreesima edizione di TELESCOPE, la nostra newsletter settimanale dedicata alle istituzioni e ai progetti culturali di cui siamo portavoce, tra i RACCONTI trovate un testo della giornalista culturale Micol De Pas dedicato alla mostra The Purple Chamber di Paul Maheke, secondo appuntamento di Corpo Celeste, ciclo espositivo a cura di Chiara Nuzzi per il programma Project Room di Fondazione Arnaldo Pomodoro; un estratto dal testo della curatrice Ilaria Bernardi nel catalogo della mostra Finché non saremo libere prodotta da Fondazione Brescia Musei e in corso al Museo di Santa Giulia di Brescia; un estratto dal testo critico del curatore Riccardo Caldura per la mostra Esther Stocker. Uno Scenario Mentale alla Fondazione Alberto Peruzzo di Padova.
Tra i VIDEO trovate un reel dedicato all’opera Color Notation (Red) di Ulla von Brandenburg, parte della collezione di Palazzo Bentivoglio a Bologna, e uno su METABOLICA (Moby Dick), installazione monumentale di Thomas Feuerstein al NOI Techpark nell’ambito della mostra HOPE in corso a Museion Bolzano.
Nella sezione EXTRA segnaliamo Motherboy, la collettiva a cura di Stella Bottai e Gray Wielebinski negli spazi di GióMARCONI a Milano; il talk Il diluvio universale: l’ossessione del presente ospitato alla GAMeC di Bergamo in occasione della messa in scena de Il diluvio universale di Gaetano Donizetti al Festival Donizetti Opera 2023 con regia e costumi di MASBEDO (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni); e infine la riapertura al pubblico dello storico cinema Modernissimo grazie a Fondazione Cineteca di Bologna.
Buona lettura!
Lo staff di Lara Facco P&C
#TeamLara
Vi ricordiamo che l’archivio di tutte le edizioni di TELESCOPE è disponibile su www.larafacco.com
TELESCOPE. Racconti da lontano
Ideato e diretto da Lara Facco
Editoriale e testi a cura di Annalisa Inzana
Ricerca ed editing Camilla Capponi, Alberto Fabbiano, Martina Fornasaro, Marianita Santarossa, Claudia Santrolli, Denise Solenghi, Alessandro Ulleri, Carlotta Verrone, con la collaborazione di Margherita Animelli, Michela Colombo, Nicolò Fiammetti, Andrea Gardenghi, Margherita Villani, Victoria Weston e Marta Zanichelli.
domenica 19 novembre 2023
RACCONTI
La camera viola, viaggio sensoriale nel mondo onirico di Paul Maheke, di Micol De Pas
Chissà cosa succede al nostro corpo quando entriamo in un sogno. Quando siamo quel sogno, in un effetto Dolby surround dell’immaginazione. Una risposta è messa in scena da Paul Maheke nella project room di Fondazione Arnaldo Pomodoro. Tre gradini in discesa conducono allo spazio dal piano strada, a sua volta un’altura necessaria a soffermarsi prima di scendere nell’onirico. Sulla parete opposta compare il volto di un essere fantastico e, sotto di lui, un parallelepipedo in metallo ossidato ospita un piccolo uomo racchiuso in un blocco di vetro. Forse è un angelo: ha le ali. Forse è tutti noi, sulle ali del sogno. Tutto intorno, i muri sono coperti da sottili tessuti, di un tono più chiaro della parete centrale. E ai piedi delle scale, dei globi opalescenti luminosi compaiono sul pavimento. Paul Maheke mi spiega che quelle lampade hanno una doppia funzione: segnare l’ingresso nel mondo che lui ha messo in scena, anticipando una destabilizzazione sensoriale e, nell’altro senso di marcia, segnalano il ritorno alla vita sulla superficie.
Quindi si entra in The Purple Chamber. Dietro il tulle alle pareti compaiono i disegni. Alluminio nero con matita sintetica colorata per un tratto pieno, definito nel tracciare visioni ancestrali, presenze, paure, entità corporee come gli incubi e metafisiche come i sogni. Rappresentare l’invisibile è al centro della ricerca di Maheke che qui inscena un progetto sulla percezione e sull’identità. Lo spettatore in effetti fa l’opera: è lui che crea la performance nello spazio espositivo, allestito da Maheke come performativo. Perché crea una tensione tra le opere esposte, i tessuti che le velano, la distanza tra loro e la parete centrale completamente disvelata. Performance senza alcuna presenza di corpi in movimento. Finché non appare lo spettatore, costretto a muoversi in quello spazio per scoprire le opere in un continuo movimento spontaneo, istintivo. Performance con la presenza di corpi in movimento. Lo spettatore incontra le opere che appaiono come elementi di una cosmologia capace di definire lo spazio-mondo in cui si trova immerso, per decifrarlo. Ognuno troverà la strada per entrare in quella raffigurazione, tra storia, memoria ed esperienza: tempo. Non lineare o cronologico: ci si perde nel metafisico onirico ancestrale di un tempo altro, che aggancia il pubblico in un vagare tra le opere da svelare e quelle pienamente disvelate della parete centrale. Il reale lascia spazio a un percepito soggettivo, così relativo da diventare universale, certamente inclusivo: non ci sono verità né l’esclusione del loro contrario.
Poi lo sguardo torna ai globi luminosi sul pavimento: si torna alla porta d’uscita. Il mondo esterno è lì fuori, ma ci apparirà come non l’abbiamo mai visto.
Crediti: Paul Maheke, The Purple Chamber, 2023 curated by Chiara Nuzzi, Installation view. Courtesy the artist and Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano. Ph. credits Andrea Rossetti and Tiziano Ercoli
Una prospettiva femminile sul mondo, di Ilaria Bernardi*
13 settembre 2022: la giovane Mahsa Amini, nata nel 1999 a Saqqez, è con la sua famiglia in vacanza a Teheran. Inaspettatamente, viene arrestata dalla polizia religiosa, accusata di indossare il velo islamico (l’hijab) in modo errato, in quanto troppo allentato. Per la polizia è dunque colpevole di mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo in vigore dal 1981 per tutte le donne presenti sul territorio iraniano, sia residenti sia straniere. Arrestata, Mahsa Amini è condotta presso una stazione di polizia dove entra in coma e, dopo tre giorni, muore il 16 settembre. Le ferite, riconducibili a un pestaggio, fanno però supporre la non veridicità di quanto dichiarato dalla polizia per cui il decesso della ragazza sarebbe dovuto a un infarto. È questa drammatica vicenda che ha scatenato una rivolta popolare, guidata dalle donne, senza precedenti in tutto l’Iran. Le donne iraniane si sono provocatoriamente tolte l’hijab e tagliate pubblicamente i capelli. Le proteste si sono rapidamente diffuse nel paese e con la stessa rapidità sono state ordinate azioni di controllo e repressione (violenze e omicidi inclusi) da parte della polizia. La situazione è cambiata dopo le quattro esecuzioni avvenute tra dicembre 2022 e gennaio 2023 che hanno portato a differenti modalità di protesta. Sebbene le mobilitazioni di piazza siano diminuite, nelle piazze, sui social media, in televisione, alla radio, sui giornali, si è diffuso il motto: Jin, Jîyan, Azadî, ovvero Donna, Vita, Libertà, che non si riferisce soltanto alla libertà della donna ma alla libertà di un’intera società oppressa da leggi repressive e inique. Lo slogan trova le sue radici nella letteratura curda, nei racconti Siyabend û Xecê, Derwêş û Adulê, Zembîlfiroş e in Mem û Zîn, una storia d’amore scritta da Ehmedê Xanî nel Seicento nella quale Zîn ‒ sorella del principe ‒ sfida la famiglia perché si innamora di Mem di umili origini.
Assume valenze di lotta politica nei quaderni delle donne curde che in Turchia lottarono contro l’oppressione statale e il patriarcato: nella rivoluzione contro il governo centrale di Baghdad negli anni Sessanta e Settanta, infatti, era già presente un pensiero simile (Jîn, Jîyan, Azadî, ossia vivere, vita, libertà). In seguito, anche in Siria, le donne curde hanno utilizzato quel motto nella loro lotta contro l’ISIS. Dopo il decesso di Mahsa Amini, Jin,Jîyan, Azadî è stato fatto proprio dalle donne iraniane ed è diventato l’urlo di ribellione nei confronti di una repressione pluridecennale della donna in Iran.
*estratto dal testo in catalogo della mostra Finché non saremo libere a cura di Ilaria Bernardi, promossa da Comune di Brescia e la Fondazione Brescia Musei con Alleanza Cultura, in collaborazione con l’Associazione Genesi e il Festival della Pace, fino al 28 gennaio 2024 negli spazi del Museo di Santa Giulia di Brescia
Crediti: Finché non saremo libere, a cura di Ilaria Bernardi. Fondazione Brescia Musei, Museo di Santa Giulia, 2023. Installation view. Ph. Alberto Mancini. Courtesy Fondazione Brescia Musei
Esther Stocker. Uno scenario mentale, di Riccardo Caldura*
La ricerca di Esther Stocker, fin dai suoi esordi, ha utilizzato un elemento che contraddistingue la produzione artistica dalla metà degli anni Venti del secolo scorso: la griglia. Per Rosalind Krauss è un ingrediente essenziale del ‘mito modernista’ anche grazie alla sua “straordinaria longevità nello spazio specializzato dell’arte moderna”. Il dispositivo d’ordine basato sull’ortogonalità e nella sua più dichiarata evidenza (reticolo nero su fondo bianco, oppure la loro inversione) è ciò che caratterizza le tele dell’artista dalla metà degli anni Novanta, periodo durante il quale completava i suoi studi prima all’Accademia di Belle Arti di Vienna, poi a quella di Brera, e infine all’Art Center of Design di Pasadena. La griglia può essere concepita come una sorta di grado zero dell’immagine pittorica, una sorta di sfondo da cui partire, o meglio ripartire, una volta si sia portato a compimento il lavoro di destrutturazione delle modalità di rappresentazione del mondo ‘esterno’. Le ripartenze sono state molteplici durante il corso del Novecento, la longevità di cui parlava appunto la Krauss, ma viene da chiedersi se ciò sia effettivamente dovuto all’essere la griglia un mito, se non il mito per eccellenza che attraversa l’arte del secolo scorso, oppure se vi sia qualcosa di non esaurito, di concretamente attingibile, in quel dispositivo che si affaccia anche negli anni duemila. Forse bisognerebbe esercitarsi fenomenologicamente, sospendendo il giudizio sul molto che si è praticato, visto e scritto intorno a quello sfondo ortogonale, per riconsiderarlo nella sua evidenza: un reticolo di relazioni formali primarie date dall’interazione fra linee e superficie, agerarchico, seriale, neutro.
La ricerca della Stocker, partendo da questo assunto, mette in campo due soluzioni: la prima, legata alla produzione di quadri di medie e grandi dimensioni, opera all’interno del sistema primario cui si è fatto riferimento, producendo moltissime varianti del medesimo sistema agendo sulle dimensioni dei riquadri e delle linee componenti griglia stessa, utilizzando poche tonalità di grigio, oltre alla diade già nominata, introducendo però delle alterazioni formali, senza venga mai del tutto meno il principio della ortogonalità. Il concetto di alterazione della regolarità è l’elemento discrasico introdotto dalla Stocker nel sistema a griglia, le linee, o meglio le relazioni fra le parti entro una superficie data, non producono solo una, prevedibile, coincidenza (e ordine, rispetto alle stesse attese dell’osservatore), ma un imprevedibile e inatteso disallineamento, della geometrica struttura bidimensionale. Una sorta di ‘disordine’ programmato, quasi il sistema in fase di costruzione avesse ricevuto un urto, o avesse subito una sorta di effetto glitch, e le linee-relazioni non coincidessero più.
*estratto dal testo critico per la mostra Esther Stocker. Uno scenario mentale a cura di Riccardo Caldura, in corso fino al 3 marzo 2024 negli spazi della Nuova Sant’Agnese a Padova, sede della Fondazione Alberto Peruzzo.
Crediti: Fondazione Alberto Peruzzo Esther Stocker. Uno scenario mentale. Ph. Ugo Carmeni
VIDEO
Tracce di dipinti scomparsi
Sono rimaste solo le tracce dei dipinti, un tempo appesi su uno sfondo color rosso pompeiano, come quello di tanti musei ottocenteschi, nell’opera di Ulla von Brandenburg Color Notation (Red), parte della collezione di Palazzo Bentivoglio a Bologna. In questo video l’artista racconta la genesi dell’opera e parte della sua storia: Color Notation, a lungo esposta al Palais de Tokyo a Parigi, è una riflessione sul tempo, perché quando la si osserva ci si domanda a quale punto della storia siamo, se le opere sono state appena staccate o devono essere riappese nuovamente. Le tracce, realizzate con speciali tinture, si aggiungono in realtà a quelle di tutti i luoghi in cui è stata esposta proprio come se l’opera stessa fosse un pezzo storico. Il tessuto è per l’artista un mezzo rivoluzionario che può essere montato e spostato dove si vuole, che accumula informazioni, che crea un legame con i luoghi e le persone. In particolare, a Palazzo Bentivoglio non si capisce davvero dove finisca l’opera e cominci l’ambiente che la ospita, perché il tessuto potrebbe essere benissimo quello delle pareti di questo palazzo storico. L’artista considera questo allestimento un “matrimonio” perfetto tra l’opera e il luogo, che ci fa porre la domanda fondamentale: “che cosa è l’Arte?”
Crediti immagine: Ulla von Brandenburg, Color notation (Red), 2022 ph. Carlo Favero
Come una grande balena
Thomas Feuerstein (Innsbruck, 1968) crea narrazioni artistiche intrecciando arte, letteratura e filosofia, con economia, politica, media digitali, biotecnologie e processi metabolici: le sue opere vanno dalle grandi installazioni a sculture processuali, disegni, trasmissioni radiofoniche, bio e net art. Nell’ambito della mostra HOPE di Museion, terzo capitolo del progetto di ricerca TECHNO HUMANITIES a cura di Bart van der Heide e Leonie Radine in collaborazione con De Forrest Brown Jr., il museo insieme a NOI Techpark ha presentato la mostra METABOLICA (Moby Dick) di Feuerstein, in cui una monumentale installazione, la cui forma ricordava quella di un sottomarino o di una balena, metteva in moto un metabolismo post-industriale, simile a una fabbrica, in cui alghe e batteri producevano, attraverso un sistema di tubi lungo un chilometro, un nuovo materiale artistico, basato su processi biologici e ottenuto tramite fotosintesi.
Crediti immagine: Thomas Feuerstein, METABOLICA (Moby Dick), 2023, at NOI Techpark as part of the exhibition HOPE at Museion, Bolzano, 2023. Ph. Credits: Atelier Thomas Feuerstein
EXTRA
Mammoni
Sono Sophia Al Maria, Patrizio Di Massimo, Bracha L. Ettinger, Hadi Fallahpishi, Jes Fan, Apostolos Georgiou, Allison Katz, Leigh Ledare, Jonathan Lyndon Chase, Gaetano Pesce, Maia Ruth Lee, Jenna Sutela, Gray Wielebinski, Kandis Williams e Bruno Zhu gli artisti protagonisti della collettiva Motherboy negli spazi della galleria GióMarconi di Milano, una mostra nata dal confronto tra la curatrice Stella Bottai e l’artista Gray Wielebinski sul concetto di “mammone”, che le loro esperienze rispettivamente di madre e figlio, celebrano, criticano e riconfigurano. Dal 24 novembre 2023 al 17 febbraio 2024 la mostra, attingendo a teorie queer, femministe e psicoanalitiche sul rapporto tra madri e figli, affronta i temi del sacrificio, della co-dipendenza, del desiderio, dell’identità, della negazione, delle gerarchie, della possessività e del tradimento. Esposte opere nuove e recenti, scelte insieme agli artisti partecipanti, che spaziano dalla pittura al collage, dalla scultura al video e l’installazione, in un allestimento che si sviluppa sui tre piani della galleria.
Il diluvio universale. L’ossessione del presente
In occasione della messa in scena de Il diluvio universale di Gaetano Donizetti, parte del calendario del Festival Donizetti Opera 2023, lunedì 20 novembre alle ore 21.00, la GAMeC – partner di progetto in occasione di Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura – ospita Il diluvio universale. L’ossessione del presente, conversazione tra Andrea Morello, Presidente di Sea Shepherd Italia (organizzazione internazionale non profit per la conservazione degli oceani), MASBEDO (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni), autori della regia e dei costumi dell’opera, Francesco Micheli, Direttore artistico del Festival Donizetti Opera, e Lorenzo Giusti, Direttore del museo. Partendo dall’esperienza di Sea Shepherd e dal racconto della drammaturgia dell’opera donizettiana, gli ospiti discuteranno di politiche culturali a sostegno della battaglia ecologica e delle azioni messe in campo da artisti e istituzioni.
Per maggiori informazioni: gamec.it
Crediti: MASBEDO, Il diluvio universale, still da video. Fondazione Teatro Donizetti 2023
Dieci giorni di festeggiamenti
Dal 21 al 30 novembre con un parterre di ospiti internazionali degno delle più grandi kermesse, con ospiti come Wes Anderson, Jeff Goldblum, Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Toni Servillo, Paola Cortellesi, Giuseppe Tornatore, Alice Rohrwacher, Vinicio Capossela, Alessandro Bergonzoni, i Manetti Bros, Mario Martone, Paolo Mereghetti e molti altri, torna ad accogliere il pubblico, dopo un lungo restauro, il Modernissimo, la storica sala cinematografica cittadina fondata all’inizio del Novecento. Nello spirito di una sala che sarà dedicata a tutto il cinema, dalle origini ai giorni nostri, il ricco programma di eventi che animerà i dieci giorni di inaugurazione vedrà ogni ospite presentare un film scelto dalla storia del cinema; si comincia con il regista Marco Bellocchio, Presidente della Cineteca di Bologna, martedì 21 novembre alle 16.30.
Consulta il programma completo!