EDITORIALE “Ecco ora prendi questi tre flaconi vuoti di detersivo, e mettili perpendicolarmente tra te e la parete, tienili fermi con il peso del corpo per un minuto, e mentre sei in questa posizione, pensa a Spinoza.” Si, il filosofo Baruch Spinoza, quello che difendeva la libertà di pensiero da ogni ingerenza religiosa o statale. In questo momento stai mettendo in atto una One Minute Sculpture di Erwin Wurm, geniale artista austriaco nato nel 1954 a Bruck an der Mur. Pochi di noi probabilmente ricordano le teorie filosofiche di Spinoza, ma il fatto di pensare a lui appoggiati a dei fustini di detersivo vuoti, è un’azione che rivela le infinite possibilità che ci offre l’Arte di interpretare la realtà, il nostro posto nel mondo, la percezione di noi stessi e dello spazio che occupiamo fisicamente e spiritualmente. Perché queste performance improvvisate, queste sculture veloci che seducono gli spettatori per il loro umorismo, estendono la realtà in un modo inquietante e, in quanto riflessione sul modo in cui interagiamo con l’arte e con il mondo in generale, hanno sempre delle componenti etiche.“Se guardi le cose con senso dell’umorismo, le persone presumono immediatamente che tu non debba essere preso sul serio. – Dice Wurm – Invece credo che le verità sulla società e sull’esistenza umana possano essere affrontate in modi diversi. Non devi sempre essere sempre mortalmente serio. Il sarcasmo e l’umorismo possono aiutare a vedere le cose in modo più leggero.”Ok. Ora puoi posare i flaconi e smettere di pensare a Spinoza. Se ci pensi ti è andata pure bene perché questa era facile: poteva capitarti una One Minute Sculpture in cui sdraiarsi per strada su 10 arance o infilare due pennarelli nelle narici, due penne nelle orecchie, due portarullini nelle orbite e una spillatrice in bocca… chissà, in quel caso, a quale filosofo avresti pensato. In questa centosettantesima edizione di TELESCOPE, la nostra newsletter settimanale dedicata alle istituzioni e ai progetti culturali di cui siamo portavoce, tra i RACCONTI trovate un estratto dal testo dell’architetta e urbanista Charlotte Malterre-Barthes per il catalogo del Padiglione Italia Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri alla 18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia; un estratto dal testo del curatore Dieter Roelstraete dal catalogo della mostra Vivian Suter. Home in corso alla GAMeC di Bergamo; e un estratto dal testo di Sara Liuzzi, curatrice, critica e docente, dal catalogo Jan Fabre. Per Eusebia e Il numero 85 (con ali d’angelo), dedicato alle opere dell’artista installate in modo permanente nella Real Cappella del Tesoro di San Gennaro, e nella Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, a Napoli.Tra i VIDEO trovate quello dedicato alla sorprendente decorazione marmorea di un edificio di Porta Marina a Ostia, oggi parte della collezione del Museo delle Civiltà di Roma, e una presentazione della mostra Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro da CAMERA a Torino, fatta dal curatore della mostra e direttore artistico Walter Guadagnini.Tra gli EXTRA segnaliamo il progetto Jacovittissimevolmente, da ottobre al MACTE di Termoli e al MAXXI di Roma; la mostra Light, Gaze, Presence di Y.Z. Kami al Museo Novecento di Firenze; e la terza edizione di Panorama organizzata da ITALICS a L’Aquila, curata da Cristiana Perrella. Buona lettura!Lo staff di Lara Facco P&C#TeamLara Vi ricordiamo che l’archivio di tutte le edizioni di TELESCOPE è disponibile su www.larafacco.com TELESCOPE. Racconti da lontanoIdeato e diretto da Lara FaccoEditoriale e testi a cura di Annalisa InzanaRicerca ed editing Camilla Capponi, Alberto Fabbiano, Martina Fornasaro, Marianita Santarossa, Claudia Santrolli, Denise Solenghi, Alessandro Ulleri, Carlotta Verrone, con la collaborazione di Margherita Animelli, Nicolò Fiammetti, Andrea Gardenghi, Margherita Villani, Victoria Weston e Marta Zanichelli domenica 20 agosto 2023RACCONTI Kill Your Darlings: perché occorre ripensare lo studio professionale per ripensare l’architettura (1), di Charlotte Malterre-Barthes* La disciplina architettonica ha iniziato ad ammettere la propria complicità e responsabilità rispetto alle devastazioni ambientali, all’ingiustizia sociale e alla crisi climatica legate al proprio ruolo nell’industria delle costruzioni. In questo scenario, che peso hanno lo ‘studio professionale’ e i suoi meccanismi interni? La tesi che qui si vuole affermare è che, per orientarsi verso un’architettura durevole e sensibile ai temi ambientali, la pratica architettonica debba emanciparsi da modelli patriarcali, paternalistici e fondati sullo sfruttamento. In altre parole, per affrontare gli intrecci tra l’architettura e le strutture esterne del potere oppressivo, occorre contrastare i limiti intrinseci alla concezione attuale dello studio di architettura. Solo attuando questo cambio di prospettiva la professione dell’architetto potrà mantenere la sua rilevanza nel fronteggiare la complessità dei problemi. Lo studio professionale è un modello ormai obsoleto? La risposta non va cercata nelle forme precarie del neoliberismo, dalla collaborazione freelance al lavoro autonomo, ma in nuove soluzioni volte a trasformare lo studio d’architettura. Prima di puntare il dito, per correggere la pratica architettonica occorre innanzitutto esaminare le problematiche: gran parte degli studi professionali, ovunque nel mondo, è costituita da strutture patriarcali e gerarchiche, sistemi di sfruttamento fondati sull’autorialità del grande architetto, sul lavoro non retribuito e la scarsa etica professionale, incapaci di affrontare l’emergenza climatica a causa di un modus operandi obsoleto. I testimoni non mancano. Nel modo in cui è oggi concepito, il modello studio – che per generare valore si affida a una cultura basata sul sovraccarico di lavoro, pessime condizioni contrattuali e rapporti di forza vessatori – va rivisto radicalmente, poiché ostacola i tentativi congiunti e collettivi di arginare le diverse crisi. In assenza di indagini adeguate sullo stato degli studi d’architettura, basta affidarsi a dati isolati perché emerga un’immagine che ha poco di sorprendente, sebbene il prestigio della professione vari significativamente da Paese a Paese, in base a meccanismi di tutela, qualifiche ufficiali, procedure di registrazione ogni volta diversi. I dati mostrano come il 76,7% degli architetti negli Stati Uniti siano uomini, e solo il 2% neri o afroamericani (2). Fuori dagli Stati Uniti gli unici dati disponibili sono quelli sul genere. In Svizzera il 15% degli architetti in attività si definisce donna, e il 28% in Francia. Con il 42% l’Italia presenta dati più incoraggianti, ma è plausibile si riferiscano in larga parte al mondo accademico, senza pensare alla dura e vittoriosa battaglia per il diritto a usare ‘architetta’ come titolo professionale, da cui si evince un forte ritardo nel dibattito (3). In India, il Council of Architecture dichiara un soddisfacente 46,78% di architette registrate, sebbene solo il 20% circa eserciti la professione (4). La realtà è impietosa. All’interno degli studi le minoranze sono esposte a discriminazioni e soprusi: ricevono salari più bassi, la loro posizione è più precaria, hanno meno chance di ricoprire ruoli dirigenziali (5). 1. Tra i nove punti enunciati in Charlotte Malterre-Barthes, A Moratorium on New Construction (in uscita per i tipi di Sternberg Press nell’autunno 2023), il no. 6 è Ripensare lo studio professionale.2. James Tarmy, #Metoo Claims Toppled Architect Richard Meier. Except They Didn’t, Bloomberg, 2019. www.bloomberg.com/news/articles/2019-02-13/-metoo-claims-toppled-architect-richard-meier-except-they-didn-t3. Rachel Martin, Architects in Italy Can Now Use the Profession’s Female Form – Here’s Why That Matters, 2017.www.thelocal.it/20170504/italian-architects-architetta-female-form-profession-language-discrimination/.4. Council of Architecture, Ratioof Male/Female Architects, ed. Government of India Ministry of Education, 2023. Ringrazio Swati Januper avermi assistito nell’interpretare questi dati.5. Meaghan O’Neill, Is the Industry a Hot bed of Sexism – and If So, Can It Be Changed?’, Architectural Digest, 2018. www.architecturaldigest.com/story/gender-parity-in-architecture *estratto dal testo nel catalogo del Padiglione Italia Spaziale Ognuno appartiene a tutti gli altri/ Everyone belongs to everyone else alla 18° Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia Crediti: Installation view Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri, 2023. Padiglione Italia 18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia. Ph. Delfino Sisto Legnani – DSL STUDIO @delfino_sl @dsl__studio. Courtesy © Fosbury Architecture Outside Art. Vivian Suter e la magia del momento, di Dieter Roelstraete* Il mondo è fornito di vita e di saggezzadal momento che genera dal suo seno esseri siffatti.Marco Tullio Cicerone Chiunque abbia avuto la fortuna e il piacere di visitare Vivian Suter nella sua casa attorniata dal giardino – o meglio, da una foresta privata – presso la cittadina guatemalteca di Panajachel, sulle rive del lago Atitlán, dovrà ammettere che l’esperienza è difficilmente paragonabile a una qualsiasi “studio visit”. (Consapevole della sua estrema riservatezza, confido che Suter non me ne vorrà per questa mia calorosa pubblicità. Spero un giorno di tornare a trovarla!) In effetti, concorre a rendere la visita così memorabile il fatto che non vi sia un reale studio di cui parlare. (1) Ormai da decenni, Vivian Suter è nota per essersi votata unicamente alla pittura all’aperto, che nel suo caso non equivale all’en plein air di stampo impressionista quanto, semmai, alle volte naturali delineate dal fitto paesaggio di alberi giganti, in buona parte piantati dalla stessa artista – il che rivela la sconvolgente rapidità con cui si compie il ciclo vegetale in questo angolo di mondo tropicale –, e che spadroneggiano sul suo hortus conclusus. Per l’esattezza, gli impressionisti ritraevano solo spazi pubblici; Suter, invece, dipinge perlopiù confinata nel perimetro del proprio giardino, godendo della sola compagnia dei suoi cani. A tal proposito, ricordo che di ritorno dagli Altopiani occidentali del Guatemala, nel dicembre del 2022, portai con me due monografie, intitolate rispettivamente Panajachel e Bonzo, Tintin & Nina. Quest’ultima prendeva il nome dai tre cani dell’artista, uno dei quali era morto poco prima della mia visita; su alcuni dipinti sono chiaramente visibili le orme delle loro zampe. (2) Mi ero spinto fino a Panajachel per discutere con Suter della sua partecipazione a una mia mostra dedicata al tempo. Mi interessava appurare fino a che punto l’artista lasciasse liberi di agire (anzi, incoraggiasse attivamente) i cosiddetti “elementi” – caldo, pioggia, sole, vento – affinché contribuissero a plasmare il suo stesso lavoro. 1. Buttando giù questa frase, penso agli innumerevoli piaceri derivanti dal privilegio di una vita lavorativa vissuta, in larga parte, dentro gli studi d’artista; è quindi evidente che non intendo qui denigrare il concetto di studio. Tutt’al più, mi interessa leggere il rifiuto da parte di Suter di uno spazio creativo circoscritto alla luce del complesso rapporto tra l’arte e la vita “reale”, cioè il mondo concreto da cui l’arte, per sua stessa definizione, deve sempre cercare di allontanarsi. La sua opera è profondamente radicata nella lunga storia – essenziale alla comprensione dell’ethos delle avanguardie – di negoziazione dell’arte con la “vita”, in cui la sperimentazione artistica confluisce inesorabilmente nel più ampio contesto degli esperimenti del vivere (e Suter ha certamente condotto, e tuttora conduce, una vita “sperimentale”). In uno dei più suggestivi testi giornalistici pubblicati di recente sulla vita e le opere di Suter, Pablo Larios riporta la seguente affermazione dell’artista: “Perché dipinge all’aperto?” “Perché così sento di non perdermi nulla.” In Pablo Larios, “Family Trees: Elizabeth Wild and Vivian Suter”, Frieze, 210, marzo 2020.2. Panajachel è stata pubblicata dal Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía nel 2021; Bonzo, Tintin & Nina è una co-pubblicazione di Hatje Cantz e Kunstmuseum Luzern realizzata nel 2019. *estratto dal testo nel catalogo della mostra Vivian Suter. Home in corso alla GAMeC di Bergamo fino al 24 settembre 2023. Crediti:Vivian Suter. Home. Vedute dell’installazione – GAMeC Bergamo, 2023. Foto: Lorenzo Palmieri. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo Elogio delle anime del Purgatorio, di Sara Liuzzi* Si può andare tanto lontano nell’immaginario collettivo e mantenere, comunque, una certa concupiscenza che lega a qualcosa che va oltre il disarmante riecheggiare del pensiero della morte, tematica di per sé già ampiamente sottoposta a un’indagine infinita.Nell’attualità del visivo e nel dilatarsi atemporale dei significati, in cui vedono coinvolte le varie accezioni nel corso della storia dell’arte e della stessa evoluzione dell’umanità riguardo l’esorcizzare la paura della morte, l’effige del teschio umano è la massima celebrazione della caducità dell’esistenza, delle cose terrene e del tempo che corrompe e corrode la bellezza, ultimo simulacro prima che esso si trasformi in polvere.La simbologia ci narra i temi della vanitas e del memento mori, i quali, da un punto di vista etimologico, racchiudono rispettivamente un presagio sulla fatuità della vita e un promemoria nel ricordarci che dobbiamo morire. Per entrare nei meandri dell’argomento, sarebbe caldamente consigliato visitare, con lungimirante attenzione, la suggestiva Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, a Napoli. Dopo aver appreso l’affascinante storia che si narra su tale luogo, comprenderemo bene che è alquanto ovvio essere accolti da teschi e ossa sin dall’ingresso. In questa sorta d’inventario osteologico, Jan Fabre elabora e rimette in discussione un tema a lui molto caro. In ambito contemporaneo, infatti, il maestro rappresenta senza alcun dubbio, il padre della frenologia, vista la sua considerevole e variegata produzione artistica, ragguardevole afflato poetico sublimato dalla sua pluriennale inclinazione verso le ricerche incentrate sul cervello umano, rivolgendo una particolare attenzione alle neuroscienze.Una simbiosi di intenti, tra l’aspetto biologico e quello spirituale, che si ripercuote nell’encefalo, in assoluto l’area tra le più complesse e ignote, ma, al contempo, tra le più erotiche, in cui ha sede il pensiero, la creatività, l’immaginazione. La massa cerebrale diviene, dunque, una dettagliata opera d’arte per il maestro, come in Brain with human fish I, o come in Cutting the memory, in cui il cervello avvia un dialogo con la natura nella sua specificità. L’emblematica opera di Jan Fabre, Il numero 85 (con ali d’angelo), si colloca, in maniera spontanea e naturale, nella nicchia a sinistra dell’altare della chiesa succitata, restituendo all’ambiente circostante un’aura suadente e mistico-sacrale. Il fascino persuasivo del corallo, magnetico e prezioso oro rosso, compone, nella sua totalità, il teschio alato dalle vuote fosse orbitali che ci fissa e non placa la sua ingiunzione. Quiescenza apparente si propaga nella scultura fiammeggiante e ancestrale, sormontata da due lunghe e affusolate ali svettanti che connotano un elevarsi dell’anima dopo la morte. Sulla fronte è riportato il numero 85, il cui significato numerologico è da ricondursi alle anime del Purgatorio, il che ristabilisce dunque un contatto diretto con il culto dei morti, o meglio con le anime. *estratto dal testo nel catalogo Jan Fabre. Per Eusebia e Il numero 85 (con ali d’angelo) (Electa 2023) edito in occasione dell’esposizione e donazione da parte di Gianfranco D’Amato e Vincenzo Liverino delle due opere permanenti dell’artista alla Real Cappella del Tesoro di San Gennaro e alla Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco a Napoli. Crediti: Jan Fabre, Per Eusebia, 2022, Cappella di San Gennaro © Archivio dell’Arte | Luciano e Marco Pedicini; Jan Fabre, Per Eusebia, 2022, Cappella di San Gennaro, Ph. Francesco Squeglia; Jan Fabre, Il numero 85 (con ali d’angelo), 2022, Chiesa del Purgatorio dettaglio © Archivio dell’Arte | Luciano e Marco Pedicini; Jan Fabre, Il numero 85 (con ali d’angelo), 2022, Chiesa del Purgatorio Ph. Francesco SquegliaVIDEO 146 metri quadrati di bellezza Dal 2006 a Palazzo delle Scienze, nell’area delle Collezioni Alto Medievali del Museo delle Civiltà di Roma, è allestita l’imponente ricostruzione di un edificio signorile del IV secolo d.C. rinvenuto negli anni Quaranta nel Parco Archeologico di Ostia Antica, a Porta Marina, e successivamente restaurato tra il 1959 e il 1966. L’impianto, caratterizzato da una vasta corte, prevedeva una sala con un’eccezionale decorazione parietale e pavimentale a intarsi marmorei – detta opus sectile –, una tecnica raffinatissima che conobbe grande fortuna anche nelle residenze romane tardo-antiche: i 146 metri quadrati della sala erano decorati con motivi geometrici e figurativi in cui si incontrano fra loro esseri umani, animali e vegetali, fissati negli intarsi minerali del mosaico. GUARDA Crediti immagine: Museo delle Civiltà, Opus Sectile di Porta Marina (Ostia Antica), Collezioni Alto Medievali. Courtesy Museo delle CiviltàLa forza di risollevarsi La siccità negli Stati Uniti degli anni Trenta: è questo il contesto drammatico in cui lavora la fotografa Dorothea Lange. Ce lo racconta in parte Walter Guadagnini in questo breve video che ci introduce alle 200 fotografie che compongono la mostra Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro in corso da CAMERA Centro Italiano per la Fotografia di Torino fino all’8 ottobre 2023.Una mostra che, come dice il direttore artistico e curatore della mostra insieme a Monica Poggi, ha lo stesso sapore dei romanzi di Steinbeck e dei film di Ford, capace di restituire l’immensa forza di un’America in grado di risollevarsi e trovare le soluzioni anche ai disastri più disperanti. GUARDA Crediti immagine: Installation view della mostra “Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro” a CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia. Fotografie di Andrea GuermaniEXTRA Jacovittissimevolmente A cento anni dalla nascita di Jacovitti, a Termoli nel 1923, i due musei di arte contemporanea delle sue due città dedicano da ottobre due mostre che ne raccontano il mondo fantastico e quella inventiva gioiosa, scomoda e irriverente che lo ha reso un autore di riferimento per il fumetto del Novecento. Il progetto Jacovittissimevolmente comprende dunque dal 7 ottobre 2023 la mostra TUTTE LE FOLLIE DI JAC! a cura di Luca Raffaelli al MACTE Museo di Arte Contemporanea di Termoli e dal 25 ottobre L’INCONTENIBILE ARTE DELL’UMORISMO a cura di Dino Aloi, Silvia Jacovitti con Giulia Ferracci al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Due esposizioni complementari, entrambe realizzate insieme a Silvia Jacovitti, figlia del fumettista, una di taglio antologico al MAXXI e una che approfondisce le invenzioni tecniche e linguistiche di Jacovitti al MACTE. Ritratti sfuggenti A cento anni dalla nascita di Jacovitti a Termoli nel 1923, i due musei di arte contemporanea delle sue due città dedicano da ottobre due mostre che ne raccontano il mondo fantastico e quella inventiva gioiosa, scomoda e irriverente che lo ha reso un autore di riferimento per il fumetto del Novecento. Il progetto a prima volta. Un viaggio nell’universo pittorico dell’artista iraniano-americano che unisce alcuni dei filoni principali della sua ricerca artistica, in un dialogo con i capolavori medievali e rinascimentali custoditi nelle varie sedi. Al centro della produzione dell’artista, ritratti di grande formato di amici o sconosciuti, uomini e donne colti in primo piano, spesso con gli occhi chiusi, su sfondi neutri che lasciano visibili solo alcuni dettagli. “Dipingendo un viso, quello che cerco davvero di ottenere è la sensazione che ho di esso – dice l’artista – l’esperienza di quel volto che passa attraverso molti strati di pittura e alla fine appare sempre un po’ sfuggente, come se non potessi arrivarci”. Crediti: Installation view “Y.Z. Kami. Light, Gaze, Presence”, Museo Novecento, Museo di Palazzo Vecchio, Museo degli Innocenti e Abbazia di San Miniato al Monte, Firenze, ph. Serge Domingie, Courtesy Museo NovecentoAppuntamento a L’Aquila 20 luoghi, più di 60 artisti, oltre 100 opere d’arte e 56 gallerie: dal 7 al 10 settembre 2023 si svolge a L’Aquila la terza edizione di Panorama, mostra diffusa e itinerante che ITALICS – prima rete istituzionale di gallerie d’arte attive in Italia – dedica con cadenza annuale ad alcune tra le località più straordinarie del nostro Paese. Dopo le esperienze di Procida (2021) e Monopoli (2022), Panorama L’Aquila si confronta con la storia del capoluogo abruzzese, affidando a Cristiana Perrella il compito di creare percorsi d’arte nella città in dialogo con il territorio, le sue istituzioni e i suoi abitanti. Dal Caffè Fratelli Nurzia al Casino delle Delizie Branconio, dal Museo Nazionale d’Abruzzo – Castello Cinquecentesco a Palazzo Rivera… ma anche panifici, librerie, negozi di dischi, botteghe di restauro, oltre ai musei e ai palazzi nobiliari, fino al cielo: tutti questi luoghi saranno abitati da opere di arte antica, moderna e contemporanea, ospiteranno performance, vedranno susseguirsi gli appuntamenti del public program con incontri, talk e proiezioni aperte al pubblico gratuitamente. Panorama L’Aquila offrirà alla città una nuova immagine di sé, un ritratto della sua monumentalità storica e della sua quotidianità attraverso le visioni degli artisti. Vai alla pagina di Panorama L’Aquila sul sito www.italics.art per scoprire il programma completo della manifestazione. Crediti: Panorama L’Aquila. Ph. Louis De BelleSei un giornalista, un critico, un curatore?Vuoi contribuire con un tuo scritto a una delle prossime edizioni di TELESCOPE?Scrivici su telescope@larafacco.com Se vuoi ricevere TELESCOPE anche tu, scrivi a telescope@larafacco.com L’archivio completo di TELESCOPE è disponibile sul sito www.larafacco.com |
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