Il 7 dicembre del 43 a.C muore decapitato per ordine di Marco Antonio il celebre scrittore, politico e filosofo Marco Tullio Cicerone.
Esponente di un’agiata famiglia dell’ordine equestre, Marco Tullio Cicerone fu una delle figure più rilevanti di tutta l’antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica.
Grande ammiratore della cultura greca, attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu senza dubbio la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano invece le Lettere (Epistulae, in particolar modo quelle all’amico Tito Pomponio Attico), che offrono numerosissime riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell’aristocrazia romana.
Cicerone occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina ed aver così ottenuto l’appellativo di pater patriae (padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza all’interno della fazione degli Optimates, l’aristocrazia senatoriale a difesa dello status quo repubblicano oligarchico e degli interessi dei grandi latifondisti. Fu infatti Cicerone che, negli anni delle guerre civili, difese strenuamente fino alla morte una repubblica giunta ormai all’ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.
L’uccisione di Cicerone avvenne nel periodo successivo all’assassinio di Cesare, all’inizio del “secondo triumvirato” tra Ottaviano, Lepido e Antonio. Cicerone aveva sostenuto dopo la morte di Cesare il giovane erede legale di quest’ultimo, Ottaviano, ma questi non potè o non volle fare abbastanza per salvarlo dall’essere inserito da Antonio nelle “liste di proscrizione” dei nemici politici.
Cicerone non era stato, certamente, colto di sorpresa dall’assassinio, da parte dei “Liberatores“, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l’uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò Cicerone definendolo l’uomo che avrebbe ristabilito l’ordine nella repubblica. Cicerone stesso d’altra parte scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per congratularsi dell’assassinio di Cesare.
La data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla congiura. L’espressione “quid agas quidque agatur” nella missiva la indicherebbe come scritta prima che Cicerone si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio dopo l’assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e protetti dai gladiatori di Bruto.
Cicerone, infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori leader della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma Cicerone fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva l’impunità a Bruto e Cassio. Poco dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.
Tra Cicerone ed Antonio, comunque, i rapporti non erano certo dei migliori, e i due, d’altra parte, si trovavano all’esatto opposto in ambito politico: Cicerone era il difensore degli interessi dell’oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica monopolizzata dai ricchi, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico. Intanto, un’altra figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e suo erede designato nel testamento. Ottaviano decise di adottare almeno inizialmente una politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.
Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l’ordine. Cicerone sperava, infatti, nell’affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso Cicerone, riportasse la pace e riformasse la repubblica. Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.
Tornato a Roma, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l’agonizzante repubblica, e l’allontanamento dal Senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente. Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di riforma della repubblica. Cicerone fu costretto ad accettare che sarebbe ora stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest’ultimo, allora, nonostante la fievole opposizione di Ottaviano, decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.
Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome Filologo, poterono trovarlo fin troppo facilmente. Cicerone, accortosi dell’arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di Vindicio (dal latino “vindicta”, vendetta), attuale frazione di Formia. Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche, che furono esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori del triumvirato.
Una volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone, come collega per il consolato, e proprio Marco comminò le pene di Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.
Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che leggeva le opere di Cicerone, gli prese il libro, e ne lesse una parte. Una volta che glielo ebbe restituito, disse: “Era un saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria“.
Successivamente al periodo romano, il ricordo di Cicerone rimase presente in tutto il medioevo e fiorì durante il Rinascimento; Giovanni I di Brandeburgo principe elettore del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua morte, con l’appellativo di Cicerone, proprio a causa della sua eloquenza.
Negli Stati Uniti d’America oggi vi sono ben quattro città cui è stato dato il nome “Cicero” in onore di Marco Tullio Cicerone. Inoltre l’espressione latina Cicero pro domo sua viene utilizzata per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa deriva da un’orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la restituzione della propria casa, requisitagli durante l’esilio.
Il nome di Cicerone è diventato un’antonomasia per indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi illustrando loro ciò che stanno visitando. Parimenti con il nome Cicerone vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte riportanti l’effigie del busto di Marco Tullio Cicerone, da apporre agli atti giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati.
Immagine d’apertura: busto in marmo alto 93 cm di it:Cicerone della metà del I secolo a.C
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