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Un bouquet di ricordi (Giulia Moca)

A Ramona piaceva tanto l’odore del legno bruciato all’imbrunire.
Come l’aroma delle bucce d’arancia o del glicine in fiore, era in grado di far fremere le corde della sua immaginazione e di scatenare un turbinio di farfalle nel suo stomaco.
Quella sera, il sentore di fumo, sinuoso si espandeva per le vie addormentate, cantando una nenia che sapeva d’autunno e d’inverno.
Dalla finestra il suo sguardo si perdeva lontano tra le casette abbarbicate sui colli nebbiosi, per poi tornare a posarsi sui tetti vicini dai comignoli fumanti. Lì, masse di uccelletti chiassosi parevano bisticciare con le lingue d’aria fredda, che impudiche s’insinuavano nel loro piumaggio.
Con gli occhi ormai ridotti a due fessure, stava cercando di studiare, ma la complessità dell’argomento non le dava pace. Continuava a smarrirsi per le vie spaziose dei pensieri piacevoli, sfuggendo da quelle tortuose che il dovere le parava dinanzi.
Aveva pertanto chiuso con afflizione il libro e aperto la finestra, anche se il procrastinare non avrebbe portato a niente, se non ad una lunga notte in bianco.
L’ultimo anno di liceo si faceva sentire, e lo spiritello dell’ansia era sempre lì, appollaiato ora su una spalla, ora su un’altra, che frenetico la esortava a sbrigarsi.
Sua madre Gabriela, non era ancora tornata da lavoro, ma già l’immaginava varcare la soglia: la schiena curva e dolente, il volto assente rivolto verso il basso, come uno stanco fiore avvizzito.
“Hai fame?” sarebbe stata la sua domanda, e premurosa si sarebbe messa all’opera.
Spesso, mentre la guardava indaffarata ai fornelli, sentiva acuto il senso di colpa e si riprometteva che la prossima volta si sarebbe preparata da sola il pasto, nonostante non riuscisse a cucinare niente se non uova al tegamino e pasta al sugo del supermercato.
Nel caso in cui non avesse avuto fame, con un lieto sospiro, Gabriela sarebbe sprofondata in quel letto troppo grande, avvolta, freddolosa com’era, in almeno una dozzina di coperte.
Talvolta Ramona s’intrufolava in quel bozzolo di calore e stuzzicava la madre toccandola coi piedi freddi. Sapeva di meritarsi le sgridate che seguivano, ma quello era uno dei pochi modi
in cui riusciva a mettersi in contatto con lei. Il loro era un rapporto distante, e non sapendo come comportarsi l’una con l’altra finivano per infastidirsi a vicenda.
Da un po’ di anni la distanza tra di loro doveva essersi ulteriormente ingrandita. Le parole che si scambiavano non andavano oltre quelle domande meccaniche e i buonanotte sussurrati. I discorsi mai affrontati, i sentimenti mai espressi, giacevano confinati dietro una parete.
La porta era lì, ma con quale chiave aprirla?
Relegate nelle rispettive stanze, madre e figlia andavano dimenticando la presenza dell’altra, troppo assorte nei loro problemi per accorgersi di quanto in realtà si mancassero.
Nonostante Gabriela fosse ancora giovane, una perenne stanchezza gravava su di lei, negandole qualsiasi voglia di uscire di casa o di impegnarsi in attività che non fossero il lavoro. Ad accrescere il suo tedio c’erano i chicchi amari d’infelicità e delusione che negli anni aveva dovuto inghiottire.
Qual era la cura di questo male? Ramona sapeva di essere un’ingrediente dell’antidoto, ma timidezza e ritrosia le agguantavano la mente e le bloccavano la voce in gola.
Le rare volte che sua madre andava a cena coi colleghi, Ramona cercava d’immaginarla a tavola con tutte quelle persone estranee intente a ridere e scherzare, e si domandava pensosa se riuscisse davvero a divertirsi in loro compagnia, o se la sua non fosse altro che una maschera.
La vera Gabriela era la donna sorridente del ristorante o l’ombra che lenta si aggirava per la casa?
Le tornò inaspettatamente alla memoria quella sera di dieci anni fa, come un veliero che dopo il lungo errare per il torbido mare dell’oblio, torna a solcare acque conosciute.
Era bambina, e viveva nella vecchia casa. In quella casa impregnata d’umidità dove il vento invernale ululava selvaggio e batteva nelle pareti, come a implorare gli abitanti stipati al caldo del focolare di farlo entrare. Fuori dalla finestra, i cedri del Libano che nascondevano alla vista il pietroso e burbero volto del monte, agitavano le cime frondose nell’aria sibilante, costretti in una danza senza fine.
Quella sera sua madre ci aveva messo tanto a prepararsi, il suo corpo armonioso era vestito di nero e un paio di lunghi stivali con tacco le avvolgevano le gambe. Ai tempi aveva ancora quella cascata di onde che le incorniciava il pallido viso a cuore.
Non ricordava dove dovesse andare, forse a una cena con le amiche, le era però rimasto scolpito nella memoria il suo volto acceso di timide speranze e di una certa fierezza: si sentiva sicura di sé e tanto bella, e diavolo se lo era!
Ramona dal canto suo aveva avvertito una nota di gelosia: se ne stava andando via senza portarla con sè, senza coinvolgerla in quella parte della sua vita di cui era tanto curiosa e a cui voleva a tutti i costi accedere, in un disperato desio di crescere e diventare grande.
La bimbetta di allora non avrebbe mai immaginato che una volta arrivata l’agognata adolescenza quel desiderio sarebbe svanito. Un’angoscia insensata di invecchiare si era impossessata di lei all’età di soli quindici anni. Ma ad affliggerla non era il pensiero della futura canizie e delle membra tremanti che un giorno avrebbe avuto: quel che Ramona non voleva perdere era la spontaneità dei gesti, la meraviglia delle cose banali, la scintilla guizzante che rifulge negli occhi dei bambini, e l’illusione del mondo come un eterno e ridente girotondo.
Ora più che mai sentiva impellente il bisogno di arrestare il suo cammino verso il futuro, di gridare alle sue gambe di fermarsi, perché non era pronta, perché quel mondo incerto le faceva una paura matta.
Accanto a loro, quella sera, c’era la nonna.
In quegli anni Ramona aveva avuto un numero spropositato di balie, tutte in qualche modo legate alla sua famiglia: zie, cugine, conoscenti di vecchia data; molte venivano proprio dalla Romania per occuparsi di lei, rispondendo all’appello di aiuto di una madre divisa tra un lavoro troppo lontano da casa e una figlia piccola incapace di badare a sé stessa.
Nonna Georgeta era sicuramente quella che aveva trascorso più tempo ad occuparsi di lei, bimba prepotente fonte di interminabili grattacapi e dispiaceri.
Ramona non era mai stata una persona facile. Dietro la sua timidezza si era sempre celato un fuocherello insolente, pronto a bruciare chiunque glielo permettesse, ma non era cattiva, bensì oltremodo sensibile e desiderosa dell’affetto altrui.
Non sentiva la nonna da quasi due anni, e non andava a trovarla in Romania da almeno quattro.
Prima di iniziare il liceo, soleva passare le torride estati della sua vita con lei, a scorrazzare per l’aia con pulcini stretti al petto e ad aprire baccelli secchi di fagioli variopinti.
I mesi che in passato aveva trascorso in Romania erano sicuramente quelli che sapevano più di libertà, quando aveva ancora l’ardire di saltare a piedi nudi sulle strade lastricate del quartiere, incurante degli occhi del mondo giudicante. Allora fare amicizia coi bambini nelle bianche pensioni di Mangalia era la cosa più naturale e al contempo avventurosa del mondo.
Adesso, non riusciva proprio a capire l’entusiasmo che ancora animava i suoi coetanei. Quel che a loro continuava a sembrare un futuro pieno di promesse, a lei pareva solo una grande fregatura. Non voleva essere così pessimista ancor prima di entrare a far parte di quel mondo, ma ogniqualvolta usciva di casa, preferiva di gran lunga fissare le punte delle sue scarpe o le crepe nel marciapiede, piuttosto che osservare quella marmaglia di facce grigie e disilluse, molte intente ad aspirare fumo insipido di sigaretta o a scrollare annoiate le bacheche dei social network.
Come se quel fumo o un pugno di “likes” potessero riempire il loro vuoto interiore.
Ma sprofondando nella sua afflizione, non stava forse diventando come loro?
Ora che ci pensava, lei e sua madre avrebbero fatto meglio a prendere esempio dalla nonna.
Georgeta, nonostante il sopraggiungere della vecchiaia e della malattia, malgrado la maggior parte dei suoi figli le avessero voltato le spalle, non si era arresa. Soleva ancora ballare col signor Mitu i venerdì sera e incontrarsi con le amiche pettegole nel parco, da un po’ di anni aveva inoltre iniziato a fare ginnastica di gruppo in quel centro tutto salute e benessere di cui non riusciva mai a pronunciare correttamente il nome. Ramona, invece, non era nemmeno in grado di andare in bicicletta senza cascare di lato, o di correre per più di quattro minuti nell’ora di educazione fisica senza farsi trascinare da qualche magnanimo compagno-carroattrezzi.
L’ultima volta che Georgeta era tornata in Italia era maggio inoltrato, e purtroppo la mole di compiti non aveva concesso a sua nipote nemmeno un giorno libero.
Adesso Ramona, tormentata dal rimorso, avrebbe sacrificato volentieri una giornata di studio, pur di trascorrere con lei dei preziosi momenti da ricordare per il resto della sua vita.
All’improvviso una brusca folata di vento le colpì in pieno il viso: i suoi capelli agitati come uno stormo di passeri iniziarono a pungerle gli occhi e a schiaffeggiarle le gote, facendola finalmente riemergere da quell’interminabile tuffo nel passato. Decine di pagine fitte d’inchiostro andarono sparpagliandosi per la stanza in penombra alle sue spalle, e lacrime di liberazione cominciarono incontrollate a sgorgare e a trascinarsi lungo le sue guance baciate dagli ultimi raggi del sole.
C’era forse ancora speranza di riassemblare i pezzi della sua vita e non avrebbe più aspettato.
Sentì la porta di casa aprirsi, un passo trascinato farsi strada per il corridoio, e infine il tonfo delle buste della spesa poggiate sul tavolo, accompagnato da un sonoro «Che mal di schiena!».
Ramona chiuse la finestra con mani tremanti, aprì la porta della sua stanza con un sorriso emozionato, e andò a salutare sua madre.
Il rombo delle macchine e il latrare dei cani ora solo un’eco lontana.

 

Giulia Moca

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