Fu l’evento che quell’anno mi aiutò a tirare avanti, nel bel mezzo di una tempesta. Ostaggio di un marito oramai non più tale, ma inquietante sconosciuto che eruttava insulti, la voce distorta e sprezzante, sentivo vacillare ogni senso di identità, dignità personale, appartenenza al mondo.
Chi ha mai provato a sopravvivere in una situazione d’inferno familiare? Sballottati da onde soverchianti, si cerca di riemergere giusto il tempo di riprendere fiato, fino alla prossima volta, chissà quando.
Nessuno ci crede, che la persona gentile e premurosa, inadatta alla vita pratica, si sia trasformata in un aggressore senza scrupoli. Non gli amici, che lo hanno conosciuto diverso. Non colleghi, conoscenti, professionisti. La verità non interessa nessuno, è solo fonte di imbarazzo. Nessuno aiuterà la vittima, intrappolata da un muro di indifferenza e diffidenza. Non l’intelligenza, la cultura, la professionalità, annientate dallo choc. Ma il lavoro consente di conservare autostima e dignità, di ricordare che il mondo esiste ancora al di là del supplizio. Il lavoro, quello ideale, porta incontri significativi, scambi di storie di vita, che si trasformano in un sostegno per la nostra stessa esistenza. E le donne che incontrai, in particolare una, Amina, furono per me paesaggi accoglienti da esplorare, alternative al mio mondo da incubo.
Vincere quel piccolo progetto di promozione sociale, sulla base di un’idea di scambio circolare di sapere tra donne, fu più di una boccata d’aria. Fu una camera iperbarica.
“Donne in circolo” mirava ad aiutare alcune donne arabe valorizzando al tempo stesso i loro saperi, per creare un piano di parità dialogica, mediante l’uso di una mediazione antropologica, di cui mi sarei occupata io.
Tutti i progetti paiono belli. Progetti di matrimonio, di figli, di ricerca, di intervento sociale, di vita, qualsiasi tipo di vita, che sia fare da segretaria a un importatore di gamberetti del Borneo, o la lettrice di italiano nel profondo Sud tunisino. Poi si infrangono contro una moltitudine di piccoli ostacoli, che come in una sorta di manga si aggregano. Da una miriade di sassolini diventano un mostro gigantesco. La realtà, in tutta la sua composita imperfezione, con tutti i suoi malintesi, incomprensioni ed equivoci.
Questo progetto non si infranse, ma subì notevoli sballottamenti a causa di difficoltà di comprensione e differenze interculturali. Prima ci fu lo scontro tra me e uno dei membri della rete, che voleva assolutamente somministrare un questionario preliminare alle donne. Il caso Regeni non è un’eccezione, ma l’apice di un’atavica diffidenza. Gli arabi, per secoli governati da tiranni e controllati da spie, detestano le domande, rinchiudendosi al loro apparire in ostinati mutismi o sguscianti fughe. Superato con non poca difficoltà questo ostacolo, rimaneva la ritrosìa degli arabi stessi, la loro riluttanza relativa a qualsiasi aiuto peloso e pietoso, più che mai in senso psicologico, soprattutto se proveniente da colonizzatori occidentali.
Per gli arabi la malattia mentale non esiste, non è qualcosa di comprensibile e accettabile ai più, se lo è è solo fonte di grande vergogna ed emarginazione, e soprattutto non si va dallo psicologo, perché ci si confida con gli amici. Gli arabi hanno karama, orgoglio, e mai vogliono apparire bisognosi. Per entrambi i motivi non bisogna porgere loro aiuto, ma amicizia.
Facemmo una faticosa questua nelle moschee della zona, cercando di raggiungere le donne nel modo più appropriato, quando all’improvviso la soluzione ai nostri problemi apparve nella figura di Amina, energica e carismatica donna cairota di figura imponente e buona famiglia, che aveva aggregato intorno a sé un gruppo di donne egiziane.
Amina aveva cinque figli e molto tempo libero. Era per sua intrinseca natura e intelligenza votata a essere ponte tra culture, per quanto fosse una musulmana devota, orripilata dalla visione di opere d’arte con nudi. Era però affamata di diversità, tollerava senza problemi le donne in minigonna, ed era riuscita a trovare per le sue amiche uno spazio nella sede di una qualche chiesa evangelica, dai coordinatori filippini. Qui aveva organizzato dei corsi di italiano con l’aiuto di un irriducibile comunista, che avevano però la pecca di un eccessivo grammaticismo.
Mettemmo allora da parte qualsiasi schema sofisticato e teorico, che fosse narrazione autobiografica, approfondimenti sul cibo, qualsiasi immaginifico parto di menti speculative, che però non interessa più di tanto chi ha bisogni concreti.
Queste donne avevano innanzitutto bisogno di parlare italiano.. Scaraventate da ampie e confortevoli case e reti familiari dell’Egitto ad angusti e sovraffollati appartamentini in Italia, destinate a una vita da casalinghe tra solitudine e disorientamento psicologico, caricate in modo precoce di compiti genitoriali, trovavano spesso solo in moschea un luogo amichevole, e non riuscivano a organizzarsi per seguire un corso di italiano.
Potevano cavarsela in un mondo arabofono di piccoli commerci, ma uscite dalla loro bolla sociale si ritrovavano in un ambiente estraneo e ostile. Avevano bisogno di sapere le parole che davano nomi al mondo circostante, di comunicare con un impiegato di uno sportello, con un medico, con gli insegnanti dei loro figli.
La nostra squadra di supporto era composta da tre donne: io, la psicologa Simona, l’educatrice Giovanna. Su tutte noi svettava Amina, sempre sorridente e apparentemente infaticabile, con i suoi originali turbanti. Orgogliosa di abitare in una zona bene di Milano, grazie al lavoro del marito, titolare di una società di sorveglianza, portava con sé i ricordi di una giovinezza spensierata e la sicurezza sociale di chi si sente arrivato. A differenza delle amiche parlava un buon italiano, e le figlie maggiori erano brillanti studentesse universitarie.
Lo scontro tra civiltà tuttavia era sempre in agguato. Un aspetto piuttosto interessante e misconosciuto dei progetti nel sociale è che bisogna letteralmente andare a caccia di utenti. Mica tutti, folgorati dalla originalità del progetto, si fiondano a usufruirne. Pare per converso di avere a che fare con prede riluttanti a farsi portare al guinzaglio.
E anche le “nostre” donne erano così. Il concetto di frequenza puntuale o regolare era loro più alieno di un marziano. Si perdevano, sbagliavano indirizzo, arrivavano in ritardo oppure non venivano per i motivi più disparati, spesso familiari, come un figlio o un marito a casa, o che pretendeva un pranzo preparato a puntino.
I miei colleghi erano risentiti e indignati da questa scarsa costanza delle donne. Il coordinatore era uno psicoterapeuta, e per gli psicoterapeuti, si sa, il concetto di setting, cornice rigida e immutabile degli incontri, è sacro. Secondo gli psicologi del gruppo, senza costanza il progetto non avrebbe funzionato. Se il progetto era di integrazione, le donne dovevano innanzitutto apprendere le regole sociali. Io desolata mi chiedevo cosa ci stessi a fare lì, visto che la voce di un’antropologa era più inascoltata di quella di un profeta nel deserto.
Le donne, da parte loro, erano assai perplesse rispetto alla modalità di queste riunioni tediose nel corso delle quali si parlava soltanto. Ci sarebbero voluti almeno del tè e dei pasticcini. Loro poi, quando si riunivano nella surreale cornice della chiesa evangelica, portavano di solito ogni ben di Dio insieme all’immancabile bollitore.
Il tira e molla andò avanti per qualche mese, fino all’estate. Più che l’antropologa con le sue enunciazioni astratte, poté la vita con il suo lento effetto carsico, e la possibilità che si dà negli incontri di sbocciare impercettibilmente e inesorabilmente.
La voce delle lezioni di italiano si diffuse e iniziarono ad affluire donne nuove, a volte appena arrivate dall’Egitto, talora anglofone, talvolta incapaci di spiccicare una parola comprensibile senza l’aiuto di Amina, di una delle sue figlie o di qualche altra donna del gruppo.
Le mie colleghe cominciarono ad allentare un po’ la guardia e adattarsi. Simona, che stentavo a capire che posto attribuisse a Bion, eccelso teorico della conoscenza intuitiva, nella sua vita preconfezionata, impreziosita da accessori griffati, produceva poetici disegnini per illustrare nomenclature, spingendosi a proporre ingenuamente terminologie italiane di organi sessuali impronunciabili in pubblico. Giovanna, presidente di una grande cooperativa ma anche persona di grande concretezza, si gratificava nel dispensare al tempo stesso consigli educativi e legali, grazie alla sua duplice preparazione.
Sul limitare della primavera giunse una frotta di bambini di ogni età. Alcuni avevano finito la scuola, altri arrivavano freschi freschi dall’Egitto. Sarebbe stato difficile non mostrare simpatia, nel senso più pieno del termine, per queste persone disorientate e bisognose di essere accolte.
Si reperirono giochi, libri, fogli e colori, e Giovanna si improvvisò baby sitter gestendo almeno tre gruppi di età differenti. Le donne con il sopraggiungere del caldo si alleggerivano di soprabiti e hijab, rischiando l’incidente culturale quando al coordinatore del progetto capitava sbadatamente di aprire la porta.
La fine del primo semestre fu suggellata da un pranzo comune. Le donne ci chiesero di portare dei nostri piatti “tipici”. Io optai per una insalata di pasta con mozzarella, tonno e pomodoro, per togliermi da qualsiasi imbarazzo culturale che includesse il concetto di halal. Giovanna portò una torta di noci della madre e Simona delle ottime polpette. I piatti furono accolti con espressioni di grande soddisfazione, mentre noi ci dedicammo volentieri ad assaggiare i falafel, i pomodori con il formaggio di capra egiziano, i dolma, e gli squisiti dolci fatti in casa con frutta secca, miele e pasta frolla.
Nel frattempo il mio matrimonio prendeva derive sempre più penose, con mio marito che agitava il conflitto tramite mia figlia, esercitando una sorta di onnipotenza su tutto quanto la riguardava, mentre un breve tentativo di terapia di coppia naufragava in brevissimo tempo. Dapprima cercava di sabotare il mio intento di iscrivere la bambina alla scuola estiva, poi partiva portandosela dietro per un soggiorno che doveva essere di dieci giorni e che durò perlomeno il doppio, dandomi se non altro il tempo di riposare nella calura opprimente, e di concedermi una piacevole avventura estiva nel corso di un mese in cui compresi che esisteva ancora la possibilità di una vita serena.
Curiosamente, la mia storia era intrecciata con quella di due compagne di progetto. Nelle chiacchierate confidenziali tra me e Amina lei cominciò a confidarmi i suoi problemi con il marito, che aveva scoperto avere un’amante. Fino a poco tempo prima mi aveva consigliata di tenere unita la famiglia per il bene di mia figlia. Ora appariva del tutto disorientata, mentre la sua vita sicura e benestante, fondata su di un matrimonio combinato, ma da lei creduto solido, stava crollando.
Anche Giovanna viveva oramai da un anno uno smottamento silente. Suo marito, socio fondatore della cooperativa, l’aveva lasciata per una donna molto più giovane. Un giorno, di punto in bianco, le aveva detto di avere bisogno di un periodo di riflessione, che gli era stato docilmente accordato. Periodo di riflessione trascorso comodamente a casa dell’amante, da cui Luigi le aveva annunciato un bel giorno di non voler tornare. L’amante lavorava nella medesima cooperativa, dalla quale era stata, una volta identificata, prontamente allontanata. Giovanna si era trovata di fronte alla scomparsa di un progetto di vita e di lavoro condiviso, e al timone di un’organizzazione dal bilancio di centomila euro annui, da sola, a coordinare numerosi educatori, mentre al tempo stesso accudiva personalmente i ragazzi assistiti. Ci raccontò come la sera bevesse una birra per rilassarsi e riuscire a dormire. Era l’unica evasione che si concedeva in una vita andata avanti senza cedimenti. Quando pranzavamo insieme mi sorprendevo a vederla, io quasi astemia e per la quale la birra è un occasionale piacere serale, a pasteggiare con il liquido giallo. La notte i pensieri tornavano ad assillarla, regalandole risvegli precoci e una stanchezza cronica, che preferiva tenersi piuttosto che far classificare il suo problema come un disturbo.
Durante l’autunno, avevamo finalmente raggiunto nel gruppo un grado di confidenza che ci permise di operare uno scambio di racconti di vita. Si trattò di un momento impegnativo e commovente, nel quale ci mettemmo tutte in gioco.
Non ricordo bene cosa dissi, a parte il racconto dei miei numerosi traslochi giovanili e dell’ultimo travagliato periodo. Sì, raccontai dei bei periodi girovaghi di ricerca in Tunisia. Ma ricordo molto bene il racconto di Giovanna, il doloroso ripercorrere una vita centrata sull’assistenza al fratello disabile, e poi la scoperta del tradimento del marito e la separazione. Così come ricordo lo smarrimento di Amina di fronte al deragliamento del suo, che aveva cercato di far lavorare l’amante in casa come donna delle pulizie, e stava in qualche modo cercando di accaparrarsi le proprietà della moglie. E infine, la commozione e solidarietà di tutte le donne.
Durante una seduta ho posto una domanda ingenua al mio psicoterapeuta: «Ma come si può diventare così?», per sentirmi replicare «Non pensa si possa cambiare?». «Certo», fu la mia risposta «ma non in peggio». Quindici anni di formazione antropologica non sono bastati a mondarmi dal presupposto evoluzionista che si debba sempre procedere in meglio. Eppure mi chiedo, come si può ingannare una persona al cui fianco si è vissuto per tanto tempo? La risposta è semplice. Bisogna accettare che l’altro è e rimane sempre altro. Ci possono essere momenti di profonda connessione, i quali non impediscono che l’altro a un certo punto riprenda la sua strada, se così vuole. Anche se questo non potrà mai, a mio avviso, giustificare il male consapevolmente inferto, e l’allontanarsi da ogni regola e limite interno o esterno.
Anche in quel piccolo gruppo eravamo altre, eppure, in quello come in altri momenti, fummo in grado di raggiungere una connessione umana, fatta di profonda condivisione delle nostre esperienze.
Il pranzo di fine del progetto, in una bella giornata di tarda primavera, fu bellissimo. Nel parco della Martesana le donne, attorniate da bambini sciamanti, si erano prodigate a cucinare grandi quantità di roba, recate in capaci pentole. Portai mia figlia, che passò l’intero pomeriggio a giocare con gli altri bambini, stringendo amicizie tanto intense quanto effimere. Io, che nel frattempo ero passata in successione per un ricovero ospedaliero e per una inutile serie di consulenze presso un centro antiviolenza, in cui tutto quel che facevano era dirmi che ce la potevo fare, stavo oramai predisponendo una richiesta di separazione giudiziale, dopo che mio marito aveva dribblato per due volte le richieste di una consensuale. Giovanna e Amina avevano già richiesto la separazione. Nel frattempo la figlia maggiore di Amina si era sposata, fresca e bella, lasciando il giovane marito vivere da solo in Egitto mentre continuava a studiare e lavorare in Italia.
Questo incontro, coronato dalla bellissima torta a tre piani di Nour, coperta di una panna color glicine e costellata di Smarties, fu l’ultimo e tante di noi non si rividero più. Io e Amina iniziammo nuovi lavori per mantenere le nostre famiglie. Il progetto non fu più rinnovato, e le stesse donne di Qamr, l’associazione di Amal, non ebbero più modo di riunirsi, orfane dell’effervescenza della loro condottiera.
Sono rimasta in contatto con Yasmin, la seconda figlia di Amina. Si è laureata anche lei e mi ha invitata, ma non ho potuto andare alla cerimonia a causa di altri impegni. Ogni tanto ci scriviamo per salutarci e chiedere notizie. Forse ci rivedremo.
Barbara Caputo